In occasione della scomparsa di Miles Davis, il 28 settembre 1991, ecco alcune «voci» raccolte dalle riviste Jazz Magazine (numero speciale del giugno 1991) e Musica Jazz (novembre 1991) che ricordano l’artista e i suoi tragitti sonori.
«L’impossibilità di un testamento. L’ultimo segno lasciato da Miles Davis nell’estate (1991), la stagione dei suoi abituali trionfi, non è stato probabilmente quello che lui avrebbe voluto. La rimpatriata a Parigi con alcuni suoi ex partner, la rilettura a Montreux delle celebri partiture di Gil Evans, progetti senza dubbio clamorosi, hanno dato l’impressione di essere più che altro ‘subiti’ dal trombettista. Per le supreme ragioni del business. Ora, a posteriori, assumono il significato di una raggelante premonizione. Perché Davis non era uomo e artista da tornare sui suoi passi, da codificare le esperienze trascorse, l’aveva affermato varie volte: devo cambiare, è come una maledizione» (Pino Candini, direttore di Musica Jazz dal 1984 al 1996). «Seguo Miles da quarant’anni. Non ho assistito a tutti i suoi concerti, ma in quelli che ho ascoltato, ha sempre suonato bene. Mi ricordo di un concerto a la Villette, nel 1985: uno dei più belli della mia vita. Quando ero giovane Davis mi ha molto incoraggiato. È stato molto positivo con me» (Steve Lacy, sassofonista americano, 1934-2004)
«È utile notare che lo scorso agosto (1991), quando in Francia venne nominato Cavaliere della Legion d’Onore, Davis fu definito ‘il Picasso del jazz’. È un’analogia significativa, dal momento che Picasso venne maltrattato in quanto discutibile essere umano, ma i suoi quadri hanno superato qualsiasi possibile difetto del suo carattere. Così ciò che più importa, riguardo a Miles Davis, è che nel corso di una carriera durata quasi mezzo secolo egli è stato autore di almeno cinque rivoluzioni che hanno modificato l’idea del jazz e il modo di eseguirlo» (Leonard Feather, giornalista, produttore, saggista, musicista e autore, 1914-1994)
«Miles fa uso di questa facciata (quella aggressiva e scostante, ndr) per proteggersi. Sotto questa falsa immagine puoi vedere che persona bella e sensibile sia. Nessuno potrebbe suonare come fa lui se non avesse un animo d’enorme profondità» (Cicely Tyson (attrice, modella e scrittrice, moglie di M. Davis dal 1981 al 1989, 1924-2021)
«Miles è un leader del jazz perché non ha paura di ciò che gli piace; al contrario, ne ha un’assoluta fiducia» (Gil Evans, arrangiatore, compositore e amico di Davis, 1912-1988)
«Per me Miles è stato un colpo di fulmine. Lo vidi a Torino nel 1956, avevo diciassette anni e, nonostante quella sera ci fossero altri musicisti grandissimi come Lester Young e Bud Powell rimasi immediatamente affascinato da lui. Mi dissi: questo è il mio strumento, e questo è il vero modo di fare musica. Da allora cominciai a suonare la tromba. Ogni sua nuova incisione divenne per me un punto di riferimento assoluto, ascoltavo ogni album fino a consumarlo. Non mi è successo nulla del genere con nessun altro musicista, neppure con Chet Baker. Amo tutto quello che fa Chet, ma Chet è ‘soltanto’ uno straordinario poeta: Miles invece è stato anche un grandissimo organizzatore di uomini e naturalmente di musica» (Enrico Rava, trombettista, 1939)
«Ma il bagno di folla finale (ventimila spettatori) nel nostro paese ebbe come cornice la Curva Sud dello Stadio Olimpico a Roma, nella torrida serata del 23 luglio (1991). Miles veniva in questa città a intervalli regolari da dieci anni, da quando cioè aveva inaugurato il suo primo tour europeo dopo la rentrée con un concerto pomeridiano al Teatro Tenda Pianeta. (…) Miles, magrissimo, quasi prosciugato, più claudicante di altre volte, salì sul palco intorno alle 23, dopo due ore di Pat Metheny. (…) Nessuno immaginava che il saluto finale di Miles con la tromba in alto avrebbe assunto nel giro di poco più di due mesi un triste significato: il commiato di un grande musicista» (Salvatore G. Biamonte, giornalista e funzionario Rai, critico musicale, 1928-1999)
«Avevo vent’anni quando Miles mi ha proposto di partecipare a una seduta di incisione. (…) È stato come un padre per me. Mi ricordo che quando mi sono ritrovato in studio per In a Silent Way, mi sentivo perduto in mezzo a tutti quei grandi musicisti. Mi chiese di fare un solo e io avrei voluto rivedere il brano per qualche istante. Miles ha rifiutato: ‘Fai come se non sapessi suonare la chitarra’. Sapeva tirar fuori il meglio dalle persone. In seguito, lo andavo a trovare quasi tutti i giorni, si suonava, si discuteva. Ho avuto una ‘chance’ immensa» (John McLaughlin, chitarrista, 1942)
«La prima volta che ho ascoltato Miles, era in Birth of the Cool e mi ha illuminato, abbagliato. Ancora oggi, penso che sia una delle più grandi incisioni di tutti i tempi. Mi ha molto influenzato. (…) L’impronta di Miles su di me è indelebile» (Joe Zawinul, pianista, tastierista, compositore, 1932-2007)
«Con una cerimonia relativamente privata, curata dalla famiglia e dal personale della sua organizzazione, Miles Davis è stato celebrato nella chiesa luterana di St. Peter a New York, tra la 52ma strada e Lexington Av., nel pomeriggio di sabato 5 ottobre (1991). Il funerale vero e proprio si era svolto in mattinata al cimitero Woodlawn, nel Bronx, dove sono sepolti anche Duke Ellington e Billie Holiday (…). La cerimonia a St.Peter comprendeva discorsi e ricordi personali da parte di Herbie Hancock, George Wein, Max Roach, il sindaco David Dinkins (presentato dal reverendo John Gensell), Bill Cosby, Jesse Jackson e Quincy Jones. Erano presenti, tra gli altri, oltre alla ex moglie Cicely Tyson, anche Dizzy Gillespie e Wynton Marsalis» (Ira Gitler, critico musicale, produttore, insegnante storico attivo dal 1951 fino alla scomparsa,1928-2019)

FUORI I DISCHI

Charlie Parker/Miles Davis
Bird & Miles (Phoenix, 1981)
Sette brani imperdibili (da A Night in Tunisia a Scrapple from the Apple) in cui Bird e il giovanissimo Davis dialogano, in compagnia di Lucky Thompson (sax tenore), Dodo Marmarosa o Duke Jordan (piano), Tommy Potter (contrabbasso), Max Roach o Roy Haynes (batteria). Alla corte di Parker il trombettista mostra già una spiccata personalità e nessun timore reverenziale.

Miles Davis
The Complete Birth of the Cool (Capitol, 2019)
Le storiche incisioni (1949-1950) del nonetto – la celebre Tuba Band – con gli arrangiamenti di Gerry Mulligan, Gil Evans, John Lewis e Johnny Carisi. In questa recente edizione, venticinque sono le tracce con note di copertina di Ashley Kahn. Nelle formazioni Lee Konitz (sax alto), Gunther Schuller (corno), Jay Jay Johnson (trombone), Max Roach o Kenny Clarke (batteria).

Miles Davis
Steamin’/Workin’/Relaxin’/Cookin‘ with the Miles Davis Quintet (Prestige, 2012)
In quattro cd i famosi album registrati nel 1956 negli studi di Rudy Van Gelder. Insieme al trombettista suonano John Coltrane (sax tenore), Red Garland (piano), Paul Chambers (contrabbasso) e «Philly» Jo Jones (batteria). Il vasto repertorio spazia tra ballad (It Never Entered in My Mind) e brani di T. Monk, D. Gillespie, l’amato A. Jamal, S. Rollins più composizioni dello stesso Davis come Four e Tune-Up.

Miles Davis
Ascenseur pour l’échafaud (20th Century Masterworks, 2021)
Colonna sonora per il film di Louis Malle, registrata in due giorni del dicembre 1957 e pubblicata l’anno successivo. Davis improvvisò in studio guardando le scene della pellicola, creando una decina di brani dall’intensa suggestione. Con lui in studio, a Parigi, il batterista Kenny Clarke e i jazzisti francesi Barney Wilen, René Urtreger e Pierre Michelot.

Miles Davis/Gil Evans
Porgy and Bess (Columbia/Sony Music, 2020)
Più di vent’anni dopo l’opera «rivoluzionaria» di George Gershwin, il trombettista afroamericano e l’arrangiatore canadese la rileggono in chiave strumentale. La tromba e il flicorno di Miles incarnano tutti i personaggi ed Evans tesse le sue «nuvole sonore» per dare spessore e leggerezza a questa sorta di «concerto grosso» per orchestra e solista. L’album (1959) è di una bellezza ancora oggi incomparabile (Bess, You Is My Woman Now, Gone, Summertime, I Loves You, Porgy).

Miles Davis
Kind of Blue (Columbia, 2016)
Fiumi di inchiostro sono stati versati su un album che è il manifesto del modalismo, maturato attraverso la collaborazione fra il trombettista e Bill Evans e con il contributo di un gruppo forte dei sassofoni di John Coltrane e Cannonball Adderley oltreché di una straordinaria sezione ritmica. Forse il disco jazz più venduto nella storia, conta 373 versioni e quella segnalata è un vinile «anastatico», con i cinque brani editi nel 1959 senza altre tracce.

Miles Davis
Miles Davis Quintet 1965-68 (Columbia/Legacy/ Sony Music 2011)
Raccolto in sei cd si trova l’intenso quadriennio discografico (tra Nefertiti e In a Silent Way) del cosiddetto «secondo quintetto»: Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams furono i compagni di viaggio ideali di Miles per estendere e trasformare il repertorio, con spazi improvvisativi inediti e importanti innovazioni armonico-ritmico-timbriche.

Miles Davis
Bitches Brew (Columbia/Legacy/Sony, 2015)
Il doppio album originale (1969) fotografò la concezione del jazz elettrico del trombettista, una visione psichedelica con groove incalzanti o atmosfere dilatate, in cui i musicisti si muovevano diretti dal leader. Il polittico – realizzato con un lavoro di postproduzione e montaggio da Davis e Teo Macero – assume contorni più ricchi e definiti in questa edizione che aggiunge ai sei brani originali altre sei take.

Miles Davis
Star People (Sony Records Int’I, 2001)
Davis è nella sua nuova fase elettrica e sperimenta tra compagni di diverse stagioni (Al Foster, Teo Macero, John Scofield, Marcus Miller). Un terzo dell’album è dal vivo (compreso il formidabile blues che gli dà il titolo) mentre il resto è inciso in studio tra 1982 e 1983.

Miles Davis
Decoy (Music on CD/Sony Music/Columbia, 2019)
Canto del cigno con l’etichetta Columbia, prima di passare alla Warner Bros. Al fianco del trombettista, tra gli altri, l’ispirato John Scofield alla chitarra e l’amico Gil Evans in un arrangiamento. L’album uscito nel 1984 è impreziosito dagli stilizzati disegni dello stesso Davis.

Miles Davis
Tutu (Warner Bros., 2017)
Capolavoro della II stagione elettrica, l’album (1986) vede in azione il bassista Marcus Miller come autore, programmatore, arrangiatore e coproduttore di gran parte dei pezzi (la title-track è dedicata all’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu). Davis ci mette tutta la sua ispirata classe e il volto (ritratti fotografici di Irving Penn); alle tastiere, tra gli ospiti, George Duke.