Mike Parr non getterà la spugna. La stringe nella mano destra, rivoli di un vino leggero si raccolgono in un secchio di latta. Con gli occhi chiusi, le palpebre serrate, si muove dall’uno all’altro lato della grande tela affissa sulla parete, misurando, nello spazio bianco della mente, il ritmo con il quale distendere il colore. Velature di rosso tenue si sovrappongono insieme ai gesti, la materia si intride di interazioni chimiche e diventa una nebbia che pone in evidenza forme astratte in assenza di immagine. Assiepati nell’androne di Casa Morra, a Napoli, sulla scalinata a doppia rampa che si solleva in una luce di intonaci e stucchi, osserviamo l’azione compiuta dall’artista australiano con il muto rispetto che si concede a un racconto orale. Sopportazione, precisione, costanza, fatica. All’opera davanti alla scenografia della tela, Parr è il veggente cieco e l’eroe martoriato, piegato dallo sforzo, con le cinque dita della mano grondanti un liquido che crea venature vermiglie.

The Intimate Resistance è il titolo della mostra di Mike Parr, fino al 31 gennaio da Casa Morra, la sede voluta da Giuseppe Morra a Palazzo Cassano Ayerbo D’Aragona. Qui, nelle sale, nei ballatoi, lungo la scalinata attribuita a Ferdinando Sanfelice, nell’atrio, nel cortile, sono conservate le varie testimonianze lasciate a Napoli, a partire dagli anni settanta, dai movimenti artistici internazionali d’avanguardia, impegnati nella Performance Art, come il Gutai e il Fluxus, l’Azionismo Viennese e il Living Theatre. The Intimate Resistance aggiunge un nuovo capitolo, portando per la prima volta in Italia una selezione di opere realizzate da Parr dal 1973 al 2023 e coinvolgendo il corpo dell’artista, chiamato a performare in prima persona in occasione dell’apertura della mostra, per lasciare poi respiro alla documentazione d’archivio, dove quella stessa presenza si rispecchia e frammenta tra incisioni, fotografie, registrazioni, inviti, cataloghi, materiali d’archivio.

Curata da Eugenio Viola e in collaborazione con il MAMBO – Museo de Arte Moderno di Bogotà, la retrospettiva presenta circa ottanta opere, raccolta eterogenea che recupera il lungo percorso di Mike Parr, sperimentatore radicale ma anche laterale delle possibilità della materia. A partire da quella che compone le sue membra non uniformi, modellabili al trauma come quelle di un atleta, un pugile dal ghigno sarcastico che sente il colpo arrivare sul viso e si prepara a restituirlo.

Nato nel 1945 a Sidney, con il braccio sinistro congenitamente malformato, Mike Parr è cresciuto nelle zone rurali del Queensland, e di questa essenza selvatica si ritrovano tracce sparse in vari suoi lavori. Come in Identification No.1, performance del 1975, testimoniata in mostra da due intense fotografie che ritraggono l’artista mentre utilizza il carboncino di un albero bruciato per segnare la linea delle sue costole, in riferimento alla drammatica vicenda dei Murri, popolazione aborigena rimossa con la forza dalla propria terra. La madre disegnava in maniera personale e di nascosto, durante i lunghi periodi di assenza del marito che, invece, considerava l’arte come un’attività irrazionale. Tuttavia, è alla figura paterna che si deve la fascinazione per il linguaggio e la scrittura, per le loro regole e le loro questioni.

Nella sua ricerca senza compromessi, Parr si è spinto oltre il codice dei linguaggi. Una sequenza di suoni, come tentativi di raffinare l’articolazione semantica, sembra riecheggiare dalle incisioni di grandi dimensioni esposte da Casa Morra, selezionate tra quelle in cui l’artista ritrae se stesso, con una particolare attenzione al volto. La puntasecca, per Parr, è un’operazione di rilevamento, che fa vibrare le stesse membra dell’artefice. Dunque, se il corpo va oltre il medium, anche il linguaggio è un confine da superare tramite torsioni e altre sollecitazioni, esercitando una pratica non dissimile da quella di altri artisti suoi coevi ma già storicizzati, come Vito Acconci e Chris Burden. E allora, le terminazioni nervose si fanno ideogramma, i vasi sanguigni diventano il canale attraverso il quale lasciare esprimere l’inchiostro nero di una ricerca esistenziale e antiautoritaria, di intima resistenza, come per le serie di performance The Emetics (Primary Vomit): I am Sick of Art, del 1977, documentata nella mostra napoletana, in cui l’artista ingerisce e poi rigetta i colori primari impiegati nelle tavolozze dei maestri della pittura.

Una mano tesa su un fiammifero (1972), una sfilza di bottoni appuntati sulla pelle del petto (1973), la protesi dell’arto mancante inchiodata a un tavolo (1977). Sono alcune delle performance più disturbanti, il cui titolo descrive con analitica freddezza l’azione compiuta, che rivivono nelle sequenze video installate da Casa Morra e che vanno a dispiegare un coerente processo di scoperta del chiaroscuro interiore, di quelle parti del sé considerate aberranti e preziose. Per Parr, performare nell’imminenza del bordo vuole dire stabilire un’estrema possibilità con il tempo, unica autorità con la quale l’artista è disposto a contrattare non tanto per strappare un’ennesima ora finale, quanto per presentire quel termine ultimo, per assottigliare il più possibile la mediazione, che sia tra cosa e parola, visione e pronuncia, mondo e percezione, narrazione e rappresentazione, morte e vita, assumendo su di sé tutti i rischi che questa operazione di prossimità comporta. E così, chi osserva trattiene il fiato, mentre l’artista rimette in atto, ancora una volta eppure mai come quella precedente, il suo lavoro logorante e asimmetrico di assottigliamento del limite.