Di tanto in tanto, il cinema ci regala l’insolito, l’inatteso, l’imprevidibile. Le mille e una notte fa parte di quei film fuori norma nel quale si scorge la norma del genio: la capacità di darsi regole proprie. La prova del nove viene dal rifiuto opposto della competizione ufficiale di Cannes 2015 di accogliere il film di Miguel Gomes. Sfida raccolta con intelligenza dalla Quinzaine des réalisateurs prima, e reiterata poi dal Fid Marseille dove il cineasta portoghese ha la sua casa naturale.

 

 

Il Festival francese che dal 2007 si è ufficialmente aperto alla finzione, sembra cucito su misura per il cinema di Gomes. Nel 2008 Aquele Querido Mês de Agosto, il suo secondo lungometraggio (viaggio melodico nei villaggi dell’entroterra portoghese), era in competizione ufficiale. Quattro anni dopo il melodramma coloniale Tabu – 300 000 ingressi in Francia nel 2012, clamorosamente mai uscito in Italia – apriva il festival. Forte del successo di Tabu, Miguel si è lanciato in un’impresa titanica, senza paracadute. Ne è venuto fuori non un film ma tre: L’inquieto, Il desolato e L’incantato. Un trittico di storie, documenti e racconti. Un unico grande sforzo per raccontare la crisi che sta attraversando il Portogallo. Alcuni avrebbero scelto un documentario. Altri ancora una finzione. Gomes ha optato per una forma che non ha genere, che si offre il lusso di appropriarsi di tutti i generi, dalla pura finzione al puro documentario e di tutti i toni, dalla satira, al dramma alla commedia alla tragedia. E che non per caso si ispira al racconto dei racconti: Le mille e una notte.

 

 

Il Fid ha accettato di mostrarli nelle condizioni volute dal regista: dedicandogli tre giornate separate (ogni parte termina, come nel racconto di Sheherazade, con la promessa di una nuova storia l’indomani). Un gesto forte di programmazione che ha permesso ai festivalieri di assistere ad uno spettacolo eccezionale. Le mille e una notte, infatti, è un’opera unica. Sin dalla prima sequenza, ha la capacità di comunicare allo spettatore un sentimento di urgenza e di necessità: il mondo deve essere raccontato. È questo uno dei compiti più antichi e alti che il cinema si è dato e che, raramente ma puntualmente, torna d’attualità, come un dovere impellente che certi cineasti assumono pienamente. Miguel Gomes è fra questi, ed ecco perché era importante incontrarlo – sperando che questo suo nuovo film trovi una sua via per uscire in Italia.

 

 

Come è venuta l’idea di far raccontare la crisi economica da Sheherazade, la regina di Bagdad?
Mi preparavo a girare un film che avrebbe dovuto svolgersi in Messico negli anni ottanta. La crisi economica è esplosa in Portogallo e mi ha distolto da quel progetto. La brutalità degli avvenimenti mi imponeva di occuparmene senza rinviare. Ho lasciato perdere il film sul Messico. Perché Sheherazade? Ognuna delle tre parti di Le Mille e una notte si apre con questa legenda: «I governi che si sono succeduti negli ultimi cinque anni hanno affrontato la crisi con delle riforme sotto il segno dell’austerità. Di conseguenza, quasi tutti i portoghesi si sono imporveriti ». Nel Paese si sono moltiplicate storie assurde, improbabili. Parlare della crisi vuol dire spiegare che cinque anni fa davamo ad un operaio disoccupato un sussidio di 300 euro che gli consentiva di vivere e che oggi gli diamo, nel migliore dei casi, 100 euro e, nel peggiore, nulla. La carità ha preso il posto dello stato sociale. Questo livello di brutalità richiede che si dia conto di quello che succede e di tutto il resto. Oltre ai fatti, alle cose concrete, ci sono anche le speranze,i desideri. Anche l’immaginazione fa parte della realtà. Per questo avevo bisogno di avere dalla mia parte la regina dei cantastorie.Bisognava raccontare tutto, non solo quello che si vede, ma anche i sogni che sono parte delle «mille e una notte» del Portogallo durante la crisi.

 

 

Quand’è che il film ha preso la forma di un trittico?
Non c’era una sceneggiatura nel senso stretto. Avevamo alcune idee e un metodo. Prendevamo delle storie tratte dai giornali, dalla cronaca, e le utilizzavamo come fossero racconti di Sheherazade. La storia del processo del gallo, per fare un esempio, è tratta dalla cronaca locale. Nel secondo episodio c’è una lunga sequenza in cui un paese intero confessa i propri crimini, tutti intrecciati l’uno con l’altro, davanti ad una giudice (che alla fine delle confessioni è talmente disperata che ha un esaurimento nervoso). Si tratta anche in questo caso di storie ispirate dalla cronaca. Ma il film ha trovato una sua forma soltanto attraverso la storia degli addestratori di passeri. Dopo aver visto un montaggio sommario di tutte le sequenze di quella parte, ho chiamato il produttore e gli ho detto: «Ho due notizie, la cattiva prima: sono tre film e non uno -E quella buona ? – Sono tre film»

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Da dove viene la storia degli addestratori e perché sono così importanti nell’economia del film ?
Girando su Youtube, per caso, ho scovato un loro video. I protagonisti erano un gruppo di persone, evidentemente di estrazione proletaria. Seduti con delle birre in mano, ascoltavano dei canti di uccelli e ne discutevano animatamente, con serietà e precisione. Mi è sembrata una cosa magnifica. In un certo senso, guardandoli, vengono in mente sentimenti opposti. Da un lato li trovo magnifici, dall’altro penso che farebbero meglio a investire genio e energie in qualcosa di più concreto, come una rivoluzione sociale..

 

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Al tempo stesso, la loro attività ha qualcosa di tipicamente rivoluzionario.
È intrisecamente rivoluzionaria, nella misura in cui è una negazione totale della situazione presente. Ma questo è un po’ teorico. Più praticamente, catturare gli uccelli è un’attività illegale. Quelli che lo fanno giocano una partita con la polizia forestale. C’è qualcosa di antico in questa pratica, si riallaccia all’antica lotta proletaria contro gli espropri delle terre demaniali. Inoltre, la comunità degli allevatori di uccelli canterini ha qualcosa di esoterico come le antiche associazioni di lavoratori. Non si può entrare a far parte del loro mondo dall’oggi al domani. Capire il canto degli uccelli è un’arte che richiede anni di esperienza. Senza questo lungo apprendistato, nessuna comunicazione con gli addestratori è possibile. Parlano e discutono di cose che sono incomprensibili per tutti gli altri.

 

Ma in che senso questa storia è centrale?
È centrale perché al cuore dell’attività degli addestratori di uccelli c’è l’idea di trasmissione. Il loro lavoro consiste nel trasmettere il canto. Insegnano agli uccelli a cantare. Alcuni canti, di cui si favoleggia l’incredibile bellezza, sono perduti per sempre. Gli allevatori più esperti cercano di ricostruirli. Tutto questo riguarda la distanza tra chi racconta e chi è raccontato. C’è nella loro storia un’armonia perfetta tra l’immaginario e la realtà. Da sempre nei miei film cerco questaa armonia. E la cerco soprattutto nelle canzoni popolari. Mettendola in scena finisco per costruire dei film divisi in due, con una parte che interrompe l’altra. Come se un solo film, un solo genere, un solo tipo di canto non mi bastasse. Le due prime parti di Le mille e una notte si succedono in questa maniera: sono una la reazione dell’altra. Nella prima c’è una grande confusione, un’inquietudine. Nella seconda si cerca di rimettere un po’ d’ordine, ma si va troppo in là e si perde il gusto per il racconto. La terza parte comincia con Sheherazade che rinuncia a raccontare per vivere: bere, ballare, fare l’amore. Poi arrivano gli allevatori di uccelli canterini e con loro un’armonia dove il racconto ritrova la vita e il gusto per le storie.