Dopo le morti dell’estate scorsa nei campi pugliesi – con relativa copertura mediatica – il dibattito sul caporalato sembra essersi affievolito, ma il fenomeno è ancora lontano da una soluzione: la recente riforma legislativa, che ha istituito la Rete del lavoro di qualità, non ha purtroppo dato grossi frutti. Alla rete – dati Inps al 3 dicembre scorso – hanno aderito solo 207 aziende su 669 che ne hanno fatto richiesta, su un bacino potenziale di circa 200 mila imprese: solo una su mille, insomma, è oggi «certificata». Del tema si è parlato ieri alla Cgil, in occasione dello studio Agree – condotto comparativamente in Italia, Spagna e Romania – da Cittalia dell’Anci e dalla Fondazione Di Vittorio, con il supporto della Commissione europea.

Lo studio ha messo in evidenza, attraverso interviste realizzate nei campi grazie anche al supporto dei sindacati, come nei tre paesi siano perpetrati – soprattutto nelle piccole e medie imprese a gestione familiari -abusi e vessazioni che in alcuni casi (soprattutto nella stessa Romania) assumono il carattere della schiavitù o della semi-schiavitù. Con lavoratori costretti, anche con la violenza fisica e l’intimidazione, a restare nel campo e negli alloggi forniti dai caporali, isolati da tutto.

Ovviamente sono situazioni estreme, ma più in generale si è ravvisato che dove si lavora per mezzo di caporali e in condizione irregolare o in nero, il bracciante vive in costante dipendenza dal datore di lavoro: per l’assenza del permesso di soggiorno, perché vengono forniti a lui, e alla sua famiglia, alloggio, vitto, mezzi di trasporto. Una sudditanza che diventa servitù, e che impedisce a chi subisce gli abusi di denunciare e di rivendicare diritti.

La responsabilità – come ha spiegato Albin Dearing, dell’Agenzia per i diritti fondamentali della Ue – può anche essere imputata al pubblico, tutte le volte che non conduce ispezioni e controlli, che non vara leggi per sanzionare chi delinque e per incentivare le denunce: quando insomma, indirettamente, dissuade il lavoratore dal presentarsi davanti a una forza di polizia, perché si diffonde una impressione di «impunità».

Naturalmente è importante anche informare: i lavoratori dei propri diritti, innanzitutto. Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil, ha spiegato come il sindacato si stia impegnando già da tempo a creare punti informativi nei paesi di partenza, dalla Tunisia, al Senegal, alla Romania. Poi si devono informare i consumatori: in Scandinavia, ad esempio, sono molto attenti alla filiera «pulita» che sta dietro a un prodotto. Meno scontato che questo accada in Italia, dove – sicuramente anche a causa di un reddito generalmente più basso – l’acquirente si indirizza sempre e comunque verso il prodotto a più basso costo.

Lo rendeva bene ieri Giorgio Mercuri, presidente di Fedagri-Confcooperative, e che è a capo di una cooperativa agricola del foggiano tra le 207 «bollinate» dalle Rete del ministero: al Corriere della sera ha spiegato che mentre le imprese del Nord Europa e della Svizzera sono disposte a pagare un po’ di più per un prodotto «pulito», quelle italiane si muovono ancora sul massimo ribasso.

Agree ha stilato dunque le condizioni «universali» dello sfruttamento sul lavoro nei campi: 1) salario di oltre il 50% inferiore a quello dei contratti; 2) giornate lavorative molto lunghe e protratte arbitrariamente; 3) periodi di riposo inesistenti o inadeguati; 4) condizioni di vita precarie e alloggi palesemente inabitabili.

Marco Cilento, della Ces, ha osservato che la situazione rischia di aggravarsi con le ultime ondate migratorie: i sindacati europei in un prossimo vertice a Zagabria chiederanno un Piano straordinario di accoglienza, che superi le rigidità delle normative sull’asilo.

In Italia, ha spiegato Paolo Pennesi, direttore generale dell’Ispettorato del Lavoro, «la difficoltà è quella di coordinare le ispezioni, oggi frammentate, e ci si dovrebbe riuscire con l’Agenzia prevista dal Jobs Act». Nel settore agricolo si svolgono tra le 10 e le 11 mila ispezioni l’anno, sulle 240 mila totali: e nel 2014 si è visto che il lavoro nero incide in agricoltura il 20% in più rispetto agli altri settori. Pennesi ha aggiunto di non credere in alcune soluzioni richieste dal sindacato, come quelle di potenziare il trasporto pubblico locale o il collocamento alternativo.

Gli ha risposto Crogi, spiegando che invece «il collocamento pubblico – incrociando il lavoro di Inps, sindacati e imprese nei comitati locali – sarebbe prezioso, così come reti di trasporto alternative a quelle dei caporali». Flai e Cgil chiedono al governo di completare la riforma legislativa, estendendo alle imprese le sanzioni dei caporali, e sostenendo i lavoratori che denunciano, concedendo il permesso di soggiorno.

«Servono più controlli, e un vero coordinamento Ue», ha concluso Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio.