Invidio Antonio Floridia che ha avuto modo di leggere – come ha scritto nel suo ultimo articolo sul manifesto – le motivazioni che hanno spinto un numero straordinariamente elevato di persone – in due giorni più di 15.000 – a firmare l’appello a sostegno delle misure restrittive decise dal governo Conte contro il Coronavirus. E a denunciare la campagna di chi cerca di cavalcare una facile protesta in nome della libertà.

Sarebbe piaciuto molto anche a me leggere le parole di tanti che sento vicini come da tempo mi capita di rado. Stavo per definirli “compagni”, ma mi sono trattenuta perché ho temuto che qualcuno pensasse che io ritengo i firmatari tutti membri della mia stessa parte politica e invece – e dico per fortuna – credo che l’adesione venga da un’area assai più estesa e variegata.

Ma per me la parola “compagni”, ormai da moltissimo tempo, ha assunto un significato diverso da quello restrittivo che io stessa le ho dato a lungo per indicare, ora, un insieme di valori e di pratiche di vita che mi fanno sentire chi li condivide, umanamente ancor prima che politicamente, vicini. Di averne trovati tanti grazie all’Appello mi ha reso felice; e, infatti, la motivazione con cui ho accompagnato la mia firma è stata brevissima ma molto sentita: ”Sono felice di firmare questo appello”.

In realtà con questa parola, oltre che esprimere il mio consenso, volevo anche sottolineare che, invece, di appelli, negli ultimi tempi non ho più voluto saperne. Non perché non concordassi, almeno nella sostanza, col loro contenuto, infatti proposto quasi sempre da amici e compagni di cui ho la massima stima e con cui da anni lavoro gomito a gomito. Ho rifiutato di firmarli perché ho paura di diventare una “appellista”. A chi ci appelliamo, innanzitutto: al governo?

Non mi piace appellarmi a un governo, quale che sia: se non sono d’accordo cerco piuttosto di organizzare una protesta, un movimento, di aprire un conflitto, qualche forma di azione collettiva, che è cosa diversa che l’espressione di un’opinione da parte di un insieme di individui che non diventano collettivo organizzato , al limite persino simili a quelli affascinati– purtroppo sempre più numerosi – dalla dilagante pratica referendaria che consiste nel premere un tasto su cui c’è l’immagine di un pugnetto a pollice in su o in giù. Pretendendo che questa sia democrazia.

L’appello in questione è diverso, esprime un giudizio che chiede di condividere e non si rivolge ad una autorità, si limita a suggerire una riflessione. Non solo sull’operato del governo, ma – ed è questo, a me pare, il suo aspetto più importante – su cosa sia la libertà. Nelle ultime settimane ho riscontrato con qualche sconcerto nella stessa mia area politica di sinistra una insofferenza verso le misure restrittive dei nostri comportamenti, condivisibile se è solo l’espressione del fastidio che ognuno di noi prova nel rispettarle, e invece inaccettabile se si considerano lesione di un nostro diritto.

Qualcuno ha invocato la Costituzione. E non si tratta di chi coglie l’occasione per inscenare una campagna contro il governo, ma di chi si sente davvero vittima di una violazione di diritti. Come se ci fosse il diritto di esporre al rischio di contagio chi è più fragile, perché vecchio o in cattiva salute o ben protetto da trasporti privati. Siccome io sono molto vecchia, dunque categoria molto a rischio, sono felice che le occasioni di contagio siano ridotte al minimo e trovo indecente l’insofferenza di chi vorrebbe esercitare la sua libertà a mio danno.

Questo appello ci ripropone un antico e sacrosanto principio: la mia libertà trova un limite in quella dell’altro. L’individualismo esasperato, che è uno dei danni principali prodotti dal neoliberismo, ha finito per insidiare il nostro senso di appartenenza a una collettività, a mettere in discussione i doveri che questa impone. Nessuno è restato immune da questo guasto, stiamoci attenti.

La libertà è una bella cosa, il libertarismo è una faciloneria. E per carità non si dica che non bisogna trattare il popolo come un bambino, che non si deve invocare disciplina ma senso di responsabilità, capacità di autoregolazione. Sì, certo, sarebbe meglio: ma queste virtù non crescono spontanee, c’è bisogno di una lunga e non solo teorica acquisizione di conoscenze indispensabile per capire la complessità dei problemi, di confronto fra punti di vista diversi, tutte cose che, pur fra tanti difetti, alla mia vecchissima generazione avevano insegnato i partiti democratici di massa. Lo so che molti degli stessi lettori del manifesto diranno:uffa! questa rompicoglioni di veterocomunista di Castellina!

Sì, sono vetero e non sopporto i “nuovisti”. E continuo a preferire i partiti alla piattaforma Rousseau.