Votate, votate, votate aveva chiesto Obama in uno degli ultimi comizi alla vigilia delle elezioni di medio termine, ma la verità è che tranne che in una manciata di Stati chiave in cui erano in gioco le sorti delle elezioni per senatore, la maggioranza degli americani non ha avuto molta voce in capitolo nell’assetto politico che plasmerà gli ultimi due anni del suo mandato.

Questi midterm sbiaditi, caratterizzati dall’apatia e il disinteresse hanno scelto 435 deputati della camera, 36 governatori e 36 senatori col principale premio in palio costituito proprio dal senato. Se saranno stati rispettati i pronostici (le votazioni sono ancora in corso mentre scriviamo), le elezioni non sono andate nel verso in cui auspicava il presidente ed i repubblicani sono riusciti a confermare la maggioranza alla camera oltre che espugnare anche il senato.

La vittoria della destra presagisce lo scenario peggiore per Obama – due anni di governo da «anatra zoppa» in cui il presidente verrà osteggiato su ogni fronte da un congresso repubblicano votato all’ostruzionismo. Non è certo una prospettiva allegra, ma nemmeno una situazione così diversa da quella che ha caratterizzato gli ultimi due anni. Se è vero che fino a ieri la maggioranza al senato dava ai democratici e alla Casa Bianca una misura di controllo sull’agenda politica, la camera blindata dai repubblicani sin dal 2010 ha avuto il potere di bloccare ogni iniziativa di riforma da parte di Obama. L’ultimo congresso è stato l’apoteosi della paralisi politica che negli ultimi anni è diventata la norma. La serrata di governo provocata dal boicottaggio repubblicano del bilancio lo scorso autunno è stata la dimostrazione della forza «distruttiva» del Gop.

L’immobilismo è stato effetto diretto dell’ostruzionismo repubblicano contro il primo presidente afroamericano. Hanno una bella faccia tosta i leader repubblicani che come John McCain accusano Obama, dopo due anni di metodico sabotaggio di ogni iniziativa legislativa, di aver guidato il governo meno produttivo della storia del paese. Ma è solo l’anticipo della prossima strategia politica dei Gop: assicurare il fallimento di Obama per addossarlo poi alla campagna presidenziale di Hillary.

Una tattica non senza rischi dato che col controllo del congresso gli stessi repubblicani saranno ora molto più esposti alle critiche degli avversari. Se il tasso di approvazione di Obama si aggira oggi sul 43%, quello del congresso è ancora molto più basso: solo il 12,5% degli americani approva l’operato del proprio parlamento. Per i democratici le elezioni pongono alcuni inquietanti interrogativi, prima fra tutte come spiegare una chiara sconfitta politica in un momento di ripresa economica.

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È uno degli assiomi della moderna politica Usa che gli elettori votano solo e soprattutto il propri portafoglio secondo il noto principio articolato dallo stratega clintoniano James Carville come «it’s the economy, stupid». Eppure lo staff di Barack Obama si trova oggi a dover spiegare come mai con un solida crescita economica (quasi il 3% nell’ultimo trimestre), un deficit interno ai minimi storici (2,8% del Pil) e gli indici da Wall street a livello di record assoluto, abbiano comunque perso le elezioni. Appena 5 anni fa quando l’economia era sull’orlo del baratro, su simili dati economici dopotutto chiunque avrebbe messo la firma, soprattutto su una disoccupazione appena scesa sotto il 6%, la metà di quello che era nel 2009 e degli attuali dati europei. Il problema è che l’impennata della finanza (l’indice dow è più che raddoppiato dal 2009) fotografa il baratro della disuguaglianza, il progresso degli utili aziendali più che il benessere reale dei ceti medi. La maggiore “occupazione” dipende dalla massa di lavoratori che ormai il lavoro non lo cercano più e da quelli alttrettanto numerosi che hanno dovuto accontentarsi di part-time, sottolavoro e precariato per supplire a impieghi solidi svaniti nella crisi.

La «ripresa» delinea la fisiologica «correzione strutturale» del lavoro e del welfare paventato dagli economisti che vi ravvisano l’onda lunga di una globalizzazione «internalizzata». La crisi ha «sfoltito» tutta una classe di impieghi che potrebbero non tornare più e mentre le aziende fanno festa, la sostanziale verità per i ceti medi è una qualità di vita in declino. La maggioranza degli americani, come degli occidentali, crede oggi che i propri figli avranno minori opportunità delle proprie e di quelle dei propri genitori.

Non ci può fare molto Obama, né di certo i repubblicani che si sono limitati a sfruttare la contingenza, puntando al minimo comun denominatore ideologico, con geremiadi di odio e paura improntate alla xenofobia articolata oggi dalle destre populiste anche in Europa. Per mascherare il vuoto di idee politiche a loro è bastato agitare spauracchi avulsi – come l’ebola o la guerra al’Isis – in quattro o cinque stati e cavalcare il populismo fino ad una vittoria che per gli elettori rischia di somigliare a quella di Pirro.