Il destino in un nome. All’anagrafe londinese, dove era stato registrato nel novembre del 1948, risultava come Michael Edward Chester Smith, ma a due anni prese il cognome del nuovo marito della madre che si chiamava Rock. Divenne così Mick Rock e passò parte della sua carriera a spiegare che non si trattava del più scaltro dei soprannomi. Del mondo del rock, inteso come universo musicale, è stato un protagonista, ma il suo strumento non ha mai emesso una nota. Mick Rock, morto lo scorso 18 novembre, è stato il fotografo che più e meglio di altri ha saputo cogliere la rivoluzione artistica e musicale degli anni Settanta, passando poi alla storia come «the man who shot the Seventies», «l’uomo che immortalò i Settanta». E questo sì era un soprannome. Alla fotografia si era avvicinato durante gli studi a Cambridge, dove aveva iniziato a frequentare la scena artistica locale. Ai tempi, studenti e artisti avevano in comune una cosa: gli allucinogeni. «Sono arrivato alla fotografia quando iniziai a sperimentare con l’LSD – rivelerà in un’intervista -. Iniziai a scattare durante un trip in acido… e ho scoperto che non c’era neppure la pellicola! ».

Fu così che entrò in contatto con Syd Barrett che, liquidato dai Pink Floyd proprio per i suoi eccessi lisergici, lo scelse per realizzare gli scatti che sarebbero stati usati per il suo primo disco solista The Madcap Laughs. Rock descriverà quelle immagini «tecnicamente fottute» perché impresse su un negativo non adatto per la luce degli interni, ma quelle imperfezioni appaiono oggi poetiche e divennero parte di una rara e preziosa rappresentazione di un artista destinato a scomparire dagli occhi del pubblico.

EMERGENTI

Nel 1972 in una villa vittoriana a sud di Londra, Haddon Hall, si trovò a ritrarre l’allora emergente David Bowie e capì che in quel giovane artista ambiguo e carismatico si racchiudeva un immaginifico universo di possibilità artistiche. Lo seguì per due anni, diventandone una sorta di ritrattista ufficiale e realizzando alcune delle immagini più iconiche del Duca Bianco e della embrionale scena glam rock. Bowie reinventò se stesso, iniziò a interpretare il personaggio di Ziggy Stardust, era alieno, androgino, provocatorio e seducente. Le fotografie di Mick aiutarono lo stesso Bowie a definire la sua dimensione estetica e a consolidare la sua fama e popolarità in un’epoca in cui la fotografia giusta su una rivista poteva cambiare la carriera di un artista. Accadde così con un’istantanea colta durante un concerto alla Oxford Town Hall davanti a un pubblico di meno di mille spettatori. Nel mezzo della performance Bowie si chinò davanti al suo chitarrista durante un assolo, e d’istinto si mise quasi a mordere le corde della chitarra. Mick Rock era sul palco e fece click. L’immagine richiamava inevitabilmente una fellatio e fece scalpore. «Per la prima volta – ha ricordato Mick – la gente iniziò a chiedersi: “Chi ha scattato questa fotografia?”». Da quel momento il fotografo chiamato Rock, divenne un Omero che non usava versi, ma i rullini della sua Nikon per creare miti. Lou Reed quando lo conobbe gli disse: «So che il tuo nome non può essere Mick Rock, è probabilmente Michael Rockburger, e non sei inglese, ma vieni da qualche parte vicino a Long Island!». Il fotografo lo immortalò sul palco del King’s Cross Cinema di Londra, nel luglio 1972, il ritratto divenne la storica copertina dell’album Transformer che segnò una svolta musicale, ma anche estetica, dell’ex voce dei Velvet Underground.

Esattamente un giorno dopo quello scatto, Mick colse sul palco Iggy Pop in una posa che verrà utilizzata per la copertina di un altro album storico Raw Power. Come tutti i grandi ritratti, le fotografie di Mick Rock finirono non solo per rappresentare, ma per definire l’aspetto, per stabilire i contorni di un linguaggio visuale. È quello che accadde con i Queen che, dopo aver visto i suoi lavori, lo contattarono nel 1973 per l’artwork del loro secondo disco. Freddie Mercury e compagni volevano qualcosa che riuscisse a cogliere l’atmosfera decadente della scena glam. La band capì, ha ricordato il fotografo, che «se riesci a catturare lo sguardo del pubblico, li puoi incuriosire sulla musica». Rock si ispirò a un’immagine di una diva glam ante-litteram, Marlene Dietrich, tratta dal film Shanghai Express. Immortalò Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon in primo piano, in una formazione «a croce» avvolti da un cupo e magico chiaroscuro. Mercury ha le mani incrociate e aperte in una posa vampiresca che sembra richiamare quasi Nosferatu. Sarà il ritratto più iconico della band, così riuscito da essere riutilizzato come spunto per il video di due anni dopo di Bohemian Rhapsody. «Il carisma unico di alcuni dei miei primi soggetti era quello che mi entusiasmava – ha detto anni dopo Mick – sembrava quasi che mi nutrissi di loro».

ALTI E BASSI

Rock, che per anni aveva sbarcato anche il lunario con foto di modelle e soggetti erotici vari, divenne richiestissimo e un punto di riferimento per artisti nuovi e affermati: Bob Marley, Tina Turner, Ozzy Osbourne, Dolly Parton, Debbie Harry, i Ramones. Dagli anni Settanta, che aiutò a fissare nell’immaginario collettivo, Mick Rock ha poi avuto una carriera di alti e bassi. Gli alti erano le copertine e i ritratti, i bassi i suoi eccessi nell’uso di cocaina che lo portarono nel 1996 a un ricovero d’urgenza e all’applicazione di quattro bypass. I primi fiori che arrivarono nella sua stanza di ospedale, uscito dalla sala operatoria, furono quelli spediti da David Bowie e Lou Reed. In un’epoca in cui la fotografia è diventata più a portata di tutti ha continuato il suo lavoro ritraendo artisti e celebrità più contemporanee quali Snoop Dog, Lady Gaga, Kate Moss, Pharrell.

Uno dei suoi lavori più recenti è stata la copertina di un album di Miley Cyrus. A lui è stato anche dedicato il documentario Shot! The Psycho-Spiritual Mantra of Rock, distribuito nel 2017. Della sua professione diceva: «Sono nel business di evocare l’aura», ben sapendo che nel sigillare un istante l’obiettivo può cogliere un’essenza che l’occhio nudo non riesce a percepire. «Un’energia mistica», come la definì in un’intervista. Ha sempre pensato che lavorare con una rockstar fosse, per chi deve scattare delle fotografie, una relazione simbiotica di reciproco scambio e reciproca ispirazione. La velocità dei media moderni, dove tutto viene immediatamente esposto a una platea globale, ha compromesso per sempre questa intimità: «Non c’è più tempo di giocare insieme e influenzarsi a vicenda perché c’è internet e qualsiasi cosa diventa subito virale e il successo può essere immediato».

PROTAGONISTI

Mick Rock è stato uno dei più evidenti esempi di come la storia del pop e della musica abbia nei fotografi non solo dei testimoni chiamati a documentare, ma dei protagonisti. Altri fotografi hanno creato sin dagli albori del rock’n’roll immagini in grado di influenzare stili, mode e apparenze e sono stati funzionali nel trasformare una cultura musicale in qualcosa di enormemente più ampio in cui l’immagine e l’iconografia è parte dell’esperienza artistica e veicola emozioni come le stesse canzoni.

Se Mick Rock è stato l’uomo che ha dato un’estetica agli anni Settanta, una decade prima l’era del rock fu ridefinita dagli scatti realizzati da Jim Marshall. Americano di Chicago, classe 1936, fu reclutato dopo il servizio militare dalla Atlantic e dalla Columbia per ritrarre i loro artisti. Passò poi a lavorare per i magazine musicali, su tutti Rolling Stone negli anni migliori della rivista, realizzando più di 500 copertine di album e diversi libri fotografici diventati storici. Scomparso nel 2010, ha lasciato più di un milione di negativi in bianco e nero in gran parte realizzati con le sue Leica. I suoi scatti, come è stato scritto, sono entrati nella coscienza collettiva.

Nel suo portfolio alcuni dei ritratti più memorabili legati alla musica. I Beatles che salgono sul palco per il loro ultimo concerto dal vivo al Candlestick Park di San Francisco nel 1966. Un Bob Dylan che, in una strada del Greenwich Village di New York, cammina dietro a uno pneumatico che sta rotolando di fronte a lui. Johnny Cash che, in un momento del suo concerto nel carcere di San Quintino, mostra il dito medio all’obiettivo. Mick Jagger colto nei suoi momenti più riflessivi. E poi Jimi Hendrix che incendia la sua chitarra a Monterey o che alza la mano sinistra al cielo durante un assolo. Ma anche Miles Davis, immortalato come un pugile sul ring o nella pausa di un festival mentre parla all’orecchio di Steve McQueen.

Ma se, come diceva Mick Rock, il compito di un fotografo era percepire l’aura, Marshall lo fece con la straordinaria e tormentata Janis Joplin, sorpresa, in uno storico scatto nel backstage di un concerto, stesa su un divano che stringe fra le mani una bottiglia di Southern Comfort. Uno sguardo che fa capire la sua solitudine interiore e la sua tristezza. «Janis non era una ragazza bellissima – ha detto di lei Marshall -, ma la bellezza usciva perché non aveva paura della macchina fotografica. Era una persona dolcissima. Quando è morta era ancora una bambina».

Anche Jim Marshall però ha spesso confuso arte e vita, identificandosi un po’ troppo con gli eccessi delle rockstar. Non andava mai in giro senza una Leica, ma anche quasi mai senza una pistola, cosa che gli costò grane legali che lo allontanarono per diverso tempo dal suo lavoro. Non fu estraneo neppure agli abusi di droga e alcol che nascondevano una personalità complessa. Si era comunque accorto che la sua professione stava cambiando: «È ormai impossibile avere l’accesso che ho avuto io – disse in un’intervista negli anni Novanta -. Nei grandi tour oggi ci sono così tanti soldi in ballo che tutti sono paranoici. Ci sono troppe restrizioni, non è più divertente scattare fotografie». Commentando la sua opera un giorno disse: «Spero che scriverete sulla mia pietra tombale che per me non è mai stato un lavoro».

DAKOTA BUILDING

La fotografa americana Annie Leibovitz ha definito Jim Marshall «il fotografo del rock’n’roll», un titolo di cui avrebbe potuto fregiarsi lei stessa, se non fosse ormai diventato del tutto riduttivo visto che i suoi ritratti hanno coperto nel corso degli anni il mondo della musica, del cinema, della letteratura e la politica (è anche la ritrattista preferita dalla regina Elisabetta). Se uno dei suoi soggetti più noti è stato Bruce Springsteen, il suo scatto più celebre tra quelli dedicati agli artisti rock rimarrà inevitabilmente quello che realizzò con John Lennon e Yoko Ono per una copertina di Rolling Stone. La fotografia ha la capacità di catturare l’istante, ma a volte anche di percepire un destino. Annie si recò al Dakota Building di New York dove la coppia risiedeva e iniziò a scattare. John voleva che nelle foto comparisse anche Yoko, Leibovitz cercava un momento che richiamasse l’intimità della copertina dell’album Double Fantasy. Il risultato fu l’immagine in cui un Lennon nudo e in posizione fetale, disteso per terra, con gli occhi chiusi e proteso in un abbraccio, bacia sua moglie. Yoko, completamente vestita, ha uno sguardo malinconico, quasi distaccato, come se immaginasse o ricordasse la scena di cui è protagonista. «Un’immagine che racchiude tutta la nostra relazione», commentò John.

Era l’8 dicembre del 1980, poche ore dopo quello scatto un colpo di pistola mise fine per sempre a quella storia d’amore.

Come nel caso di Rock con Bowie o della Leibovitz con Lennon, l’intimità tra fotografo e il suo soggetto, che in questi casi è un dialogo muto tra due artisti, è forse alla base delle immagini che oggi definiamo «iconiche». Come quella scattata nel 1967 da Joel Brodsky nel suo studio di New York a Jim Morrison. Il frontman dei Doors è senza maglietta, in una posa che richiama il Cristo in croce con uno sguardo intenso verso l’obiettivo. I Doors quell’anno pubblicheranno i loro primi due dischi storici. Quel fotogramma, ha spiegato lo stesso Brodsky, catturava Morrison nel suo momento migliore perché «non sarebbe mai più apparso come allora». Il giovane cantante e poeta era già in preda ai suoi demoni, la stessa session non fu affatto facile. Jim era così ubriaco che non riusciva quasi a stare in piedi. L’intimità era anche alla base del rapporto tra Robert Mapplethorpe e Patti Smith, una relazione romantica e fraterna raccontata nel libro della rocker Just Kids. Prima ancora di diventare la sacerdotessa del punk, Patti fu il soggetto degli scatti più naturali, teneri e poetici di un fotografo che non avrà paura di sovvertire le regole della sua arte. Perché la capacità di cogliere qualcosa di unico soprattutto in artisti complessi o tormentati è uno dei talenti dei grandi fotografi. Lo ha capito il newyorkese Mark Seliger, quando ritrasse Kurt Cobain in una session per Rolling Stone dopo la pubblicazione dell’ultimo album dei Nirvana In Utero. Seliger realizzò una serie di primi piani in bianco e nero, l’aspetto strafottente classico di Kurt in unico scatto si smorza e appare, per un solo fotogramma, come ha spiegato lo stesso Seliger, completamente indifeso. La rockstar scompare, riappare il ragazzo fragile, spaventato dal mondo e da quella fama che non riusciva a gestire. Sarà l’immagine che Rolling Stone utilizzerà per una cover story dedicata a Cobain dopo il suo suicidio.

La relazione tra rockstar e fotografi spesso è la storia di un attimo, di un giorno, altre volte di un’intera carriera. L’italiano Armando Gallo ha iniziato la sua professione di fotografo e giornalista musicale a Londra alla fine degli anni Sessanta dove tutto stava accadendo. Uno dei suoi primi incarichi fu quello di andare alla presentazione alla stampa di Sgt. Pepper dei Beatles. Fu qui che raccontando la scena locale per i primi magazine rock italiani (Big e Ciao 2001) entrò in contatto con una band di cui ha seguito sempre l’evoluzione, diventandone biografo ufficiale e principale ritrattista, i Genesis. In una delle prime foto che scattò alla band, datata 1971, si vede un accigliato Phil Collins che invece di prestare attenzione all’obiettivo sfoglia una rivista. Ha rivelato Gallo che il batterista che dieci anni dopo sarebbe diventato la popstar più celebre del pianeta era sconfortato dal fatto che la stampa musicale inglese non parlasse del suo gruppo. Gallo realizzerà la copertina del live Seconds Out del 1977 e firmerà la prima biografia della band del 1978. Nel suo immenso repertorio di lavori c’è anche la regia di un video degli U2, Even Better than the Real Thing.

Che cosa sarebbe la storia del rock senza le immagini che l’hanno accompagnata? Le fotografie non solo hanno fissato nella memoria di tutti il fascino, l’estetica e la mistica di alcuni artisti diventati divi e icone. In alcuni casi hanno saputo creare qualcosa di più profondo che, col passare del tempo, ha assunto una vita propria anche indipendente rispetto al semplice interesse e alla curiosità per la foto che ritrae una celebrità. L’aveva capito e spiegato bene Mick Rock quando, ripensando al suo lavoro, disse: «Una volta era solo rock’n’roll. Era del tutto usa e getta. Oggi è arte».