Michele Rabbia è un «residente di spazi», nel senso che quando suona li abita e li crea. Col suo drumming fortemente inventivo riesce a popolare di pattern ritmici e timbrici l’alveo musicale nel quale decide di collocarsi e allo stesso tempo è molto attento a «fare spazio», letteralmente, a non intasare troppo questi flussi, per lasciare sempre un giusto riconoscimento performativo alle pause e ai silenzi.
Lo intervistiamo alla fine di un magnifico concerto al Torino Jazz Festival (una sorta di specchio riflesso tra i norvegesi Jan Bang e Harve Henriksen e gli italiani Roberto Cecchetto e, appunto, Rabbia).

Ti chiediamo innanzitutto se ti ritrovi in questa definizione…
Direi di sì. Da quando ho iniziato a collaborare con musicisti del nord Europa ho davvero apprezzato la loro capacità di «far suonare il silenzio». Un senso di sospensione che regala vita anche al non-suono, anche al silenzio. Immagino di avere un po’ appreso questa lezione e cerco di utilizzarla. Lavoro su queste «camere di suono» che cerco di non definire mai del tutto, lasciando aperti gli spazi, facendone subentrare altri e modificandoli via via…

Proprio per questo è difficile definirti semplicemente batterista. Come minimo sei anche percussionista, ma nel tuo caso anche questa definizione risulta incompleta.
Quello che mi interessa da sempre è lavorare sulla materia sonora, cercare di forgiarla e di scolpirla. Parto non tanto da un’idea di gesto batteristico o percussionistico, ma cerco veramente di far coabitare i suoni. Sono un manipolatore della materia più che un semplice «swinger».

Da dove ti è arrivata quest’idea?
È stata una lunga strada formativa. Io sono un amante del gesto, del tocco fisico sulla pelle e sui metalli. Eppure mi sono lasciato sedurre anche dall’elettronica e cerco di far convivere questi due mondi. Senza precludere nulla dell’uno e dell’altro. Come se dal mio suono acustico potessi entrare o spostarmi in un’altra zona, un’altra area che è quella del suono trattato, sintetico, digitale.

C’è stato un incontro musicale che ti ha fatto fare proprio un upgrade in questo senso?
Tanti. Tanti e per diversi motivi. A inizio carriera avevo contemporaneamente un duo con Stefano Battaglia e uno con Antonello Salis, due musicisti completamente diversi tra loro, ma accomunati da una sorta di «magia» sonora, quasi materica. Ci sono stati anche molti musicisti francesi che mi hanno permesso di entrare nella loro bolla di idee creative più legate alla musica colta contemporanea. Poi, come dicevo, è arrivato il trip scandinavo, che mi ha portato in un altro emisfero ancora… Per me è molto importante tenere vive le collaborazioni con altre scene musicali, altre culture. Sono cose che vivificano, temprano, fanno maturare. Mi viene in mente il mio primo concerto in duo con Roscoe Mitchell a Padova (nell’ottobre 2016, ndr). Era un concerto completamente al buio, totalmente improvvisato. Lui è un signore della musica, ma anche una grandissima persona. Abbiamo chiacchierato un bel po’ prima del concerto, anche di politica, ma non abbiamo parlato di musica. Io ero piuttosto teso, annichilito dall’importanza del personaggio e dalla sua storia. Mi ricordo che quando abbiamo iniziato non riuscivo a partire, attendevo un suo cenno, una sua mossa e lui cominciò subito con una nota lunghissima al sax soprano. Sarà durata tre, quattro minuti grazie al magistrale uso della respirazione circolare e aveva al suo interno, si portava il carico, tutto il suo background: l’Art Ensemble of Chicago, l’avanguardia americana, l’AACM… e lì mi sono reso conto di quanto le cose che suoniamo siano il retaggio di quello che viviamo. A quel punto mi sono rilassato e ci ho dato dentro anch’io.

Anche i tuoi primi passi da giovane allievo hanno avuto un mentore importante. La tua formazione musicale ha inizio sotto la guida di Giorgio Artoni, percussionista del Teatro Regio di Parma…
Beh, Giorgio Artoni e Daniele Vineis sono stati gli architravi del mio apprendistato classico. Mi hanno veramente istigato ad approcciare le percussioni come risorse timbriche. Artoni viveva in un paesino della Val d’Aosta e io che allora abitavo non lontano da Torino partivo la mattina, prendevo sei treni e facevo un’ora di lezione con lui, per poi tornare a casa a mezzanotte. Mi ricordo che un giorno arrivai e mi disse, ‘Oggi non suoniamo’. E mi preparò il pranzo. Mise in tavola tutte le pietanze che aveva cucinato, caricò sul giradischi una sinfonia di Mahler e cominciò a dire, ‘Ecco vedi, i pomodori sono gli ottoni, i carciofi sono gli archi…’ e così via, spiegandomi tutta l’orchestrazione della sinfonia attraverso i piatti di quella fantastica tavolata.

Hai accennato prima al tuo interesse per l’elettronica. Tu dal vivo che software usi?
Io uso semplicemente Ableton Live. Ho provato altri software che mi interessavano, ma alla fine ho adottato Ableton perché trovo che sia un software fatto molto bene, stabile e versatile. E mi rassicura il fatto che ci sia dietro una grande azienda che ha la capacità di adattarlo immediatamente ad ogni upgrade dei vari sistemi operativi. Con una piccola ditta non è sempre sicuro che accada… Il mio sistema comprende Ableton Live e Max MSP. Quest’ultimo è un ambiente di sviluppo grafico per la progettazione di software dedicati ad applicazioni musicali e multimediali in tempo reale, lo uso in maniera molto semplice rispetto alle possibilità che ha. Diciamo che porto l’acqua al mio mulino in ogni modo possibile…

Invece per quel che riguarda la parte analogica del tuo set live, è come se avessi voluto conservare il tuo retaggio di studi classici mettendo un timpano al posto del rullante…
Sì perché pensando il mio drumming, non da batterista, rigorosamente coi quattro arti sempre impegnati, ma pensandolo semplicemente da creatore di sorgenti sonore, ho potuto ribaltare le gerarchie delle varie componenti. Io in realtà tengo un timpano o una gran cassa al centro e ho un microfono col quale elaboro tutti i suoni acustici che faccio in tempo reale. Non uso quasi niente di preconfezionato. Pezzi di batteria, oggetti, piccole percussioni, il mio corpo e la mia voce entrano tutti in questa sorta di pastura.

Collabori da sempre con alcuni danzatori, in particolare il grande Virgilio Sieni. Mi pare un aspetto della tua sfera performativa cui non vorresti mai rinunciare…
È vero, ci tengo tantissimo. Stiamo per far partire un progetto nuovo con Virgilio, che comprenderà, oltre a noi due, tre musicisti francesi e quattro danzatori.

In questo contesto cosa ti scatta?
La danza è una forma di espressione artistica che mi seduce per la capacità di far parlare il «corpo». Avendo anch’io un atteggiamento piuttosto fisico e gestuale sul mio strumento, mi accorgo di avere una grande sintonia con il lavoro dei danzatori e delle danzatrici. Sul palco cerco di mettermi letteralmente sulla loro scia, o addirittura al loro fianco. Mi viene abbastanza naturale questo tipo di approccio, cerco di immedesimarmi in qualche modo anch’io in una sorta di danza, anche se con movimenti decisamente più disastrosi… Forse anche per questo con Virgilio sono tantissimi anni che collaboro e ho visto crescere la nostra sintonia, performance dopo performance.

Cos’altro stai per fare?
Ho un progetto a Parigi con l’Ensemble InterContemporain. Roberto Negro, compositore e musicista italiano oramai naturalizzato francese, ha scritto un brano che presenteremo dal vivo io, lui e alcuni elementi dell’Ensemble. La prima è fissata in novembre a La Cité de la Musique, nel Parco de La Villette, a Parigi.

LA BIOGRAFIA
Michele Rabbia è nato a Torino nel 1965. Dagli anni Novanta si è affermato come batterista tra i più creativi in Europa. Non è semplice raccontare i tanti affluenti dei suoi interessi creativi. Ha suonato con Aires Tango, con Antonello Salis e Stefano Battaglia, Dominique Pifarely, nel trio di Michel Godard. La passione per la musica improvvisata e quella contemporanea lo ha portato a collaborare dal vivo e in studio con musicisti come Sainkho Namtchylak, Eugenio Colombo, Rita Marcotulli, Paul McCandless, Andy Sheppard, Marilyn Crispell. Con il chitarrista norvegese Eivind Aarset ha instaurato una collaborazione pluriennale. Si è esibito accanto a performer teatrali e scrittori. Il suo interessamento per altre forme d’arte gli ha consentito di collaborare anche con la danzatrice e coreografa americana Teri Weikel, la spagnola Magda Borull Pascal della compagnia di Carolyn Carlson, la Compagnia Teatro-Danza di Flavia Buccero e Virgilio Sieni.