L’attenzione, lo sguardo sempre aperto, vibrante, verso personaggi conturbanti, eccessivi nel senso dello straripamento delle facoltà dell’essere, eccedenza che, a ben guardare, scandisce, realizza appieno l’essere secondo ingiunzione nietzschiana: ecce homo; è uno dei fuochi, delle messe a fuoco, del cinema di Michele Placido, dando ormai per pronto il suo Caravaggio che idealmente si ricongiunge al Dino Campana di Un viaggio chiamato amore. È in ragione di questi eccessi o straripamenti d’io, di queste necessitate enfasi nelle movenze dei personaggi, accesi dagli spasmi dei nervi, dei desideri sormontanti; di certi squilibri nella messa in scena che questo cinema resta uno dei più connotati e interessanti del panorama italiano contemporaneo. Un cinema che non ha paura di mostrare la carne – o d’altra parte «la carta», la letterarietà a cui la carne arriva per via degli eccessi, dei tormenti, dei deliri –, la contraddizione, l’irruenza del desiderio inscritto nell’atto stesso del filmare.

PER QUESTO motivo la rassegna barese «Registi fuori dagli scheRmi» che nell’ultimo anno, costretta a migrare sul web a causa della pandemia, si è dedicata ad autori italiani e a film dimenticati o discussi tra cui Martone e il suo Odore del sangue, Maresco, Bellocchio, torna in presenza il 24 giugno dedicando una serata a Michele Placido (che sarà presente a Bari a presso l’arena della Film House di Apulia Film Commission) e al film che più di tutti ha ispirato negli ultimi anni una sorta di mitologia del dibattito critico, proprio della critica in quanto messa in scena del dissenso, nel 2004, alla Mostra di Venezia, quando fu presentato in concorso Ovunque sei. Ma c’era qualcosa che non andava in quel dissenso, ed era il piglio con cui lo si esercitava, il cipiglio del cinefilo disdegnoso; era certa ilarità di scherno sciorinata da una parte della critica che il più delle volte tradiva la superficialità dello sguardo, forse la pigrizia con cui si approcciava a un palinsesto di immagini anomalo, asimmetrico, cioè, in questo caso, aperto alle intrusioni, alle prospezioni dello sguardo.

VERREBBE da dire, se non si corresse il rischio di risultare pedante, che la critica – in quanto reinvenzione, declinazione proteiforme dell’opera – è cosa seria e richiede analisi, argomentazione, tanto più oggi che impera l’estetica della cagnara, della freddura a tutti i costi sui social network. Anche la cosiddetta stroncatura – forma di discorso verso cui sono poco incline e che in Italia vanta una certa tradizione: si pensi a Berardinelli – necessita di serietà, approfondimento, perché non sia semplice invettiva, o epifonema di mentecatto, peto che però sbotta dalla bocca.

QUELL’ANNO a Venezia c’erano Hou Hsiao Hsien e Jia Zhangke che mi diedero un gran appagamento estetico, Desplechin che me ne diede in termini di strutture narrative in azione, ma le emozioni vennero da Kim Ki Duk e da Placido appunto, dal dimenarsi disperato, carneo, dei suoi personaggi, anime destinate a sperimentare la vita nella naturale appendice del ricordo, e nella lacerazione, nella distanza tra gli esseri, nel rimorso fattosi spazio, e tempo. «L’anima, quello che diciamo l’anima e non è/ che una fitta di rimorso» scrive Sereni nell’Intervista a un suicida; non è che il piano, in Ovunque sei, piano cinematografico evidentemente, e piano basculante da una dimensione all’altra (tra la vita e la morte e un dopo limbico e chissà quanti altri stadi di coscienza), terreno su cui si sperimenta, nei termini, nella carne dell’immagine, la distanza dall’altro non più colmabile (questo è il rimorso), la distanza tra le figure (che pure continuano a toccarsi, a sfiorarsi in un’eco eterna, in un riverbero acqueo) avviate a scontare la propria solitudine nel transito da un piano all’altro, come se non ci fosse realtà più urgente (unica possibilità di sussistenza) che quella cinematografica, come se la vita e la morte apparente che ci prende alla fine della vita non fossero che stati connaturati alla realtà dell’opera, ai gangli del montaggio, alle immagini trascoloranti una nell’altra (da una dimensione all’altra, da un metabolismo all’altro, come Elena s’incarna, anzi di disincarna in Emma) sulla base del loro riflesso che allora è ciò che le collega, è ponte di passaggio, come quello da cui precipita l’ambulanza avviando la ridda del ricordo, o del sogno, o semplicemente del film. Specchi d’acqua, apnee in fondo al fiume, volti che si specchiano e si perdono nei finestrini, tra le vetrate, nell’eco dei lampioni e delle nubi notturne: tutto trama in favore della compenetrazione tra le immagini e i corpi e le anime via via apparenti nella sostanza transeunte, sfumante del riflesso; e così in favore del transito verso altre ipotesi di messa in scena.

Quella che può apparire un’affettazione nella rappresentazione – recitazione sopra le righe; dialoghi enfatici, artificiosi, incastonati a forza nella supposta fluidità della mimesi a 24 fotogrammi al secondo; musiche autunnali, fluviali di Ludovico Einaudi – è in realtà il passaggio progressivo a forme di teatralizzazione dei personaggi, perché – in pose e battute artate o decantate, disarmate rimuginazioni: «perché la vita nell’atto stesso in cui la viviamo è sempre, sempre così ingorda di se stessa, che non si lascia mai assaporare: il sapore è nel passato, sì il passato che ci rimane vivo, dentro; il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati» – tradiscano ed esibiscano, tragici e ridicoli come ogni volta, la loro origine e il loro destino letterari, poetici (non a caso tra gli sceneggiatori ci sono due scrittori come Francesco Piccolo e Domenico Starnone) e così i loro eccessi umani troppo umani, ché non c’è possibilità di vita fuori dall’opera, fuori dalla poetizzazione del mondo.