Un giorno qualunque, uscendo di casa, un uomo avverte un indizio strano. Sulla porta, subito sotto lo spioncino, è stata tracciata una X. Scartati i riferimenti biblici che il segno evoca, ambiguo anche sul messaggio di salvezza o di condanna che eventualmente comunicherebbe, la vittima, simile a un attore kafkiano gettato improvvisamente in un mistero, prova a cancellare quella lettera. Gli sforzi tuttavia falliscono. Per quanto reiterati, naufragano ogni volta e quel segno riappare ostinatamente, come un enigma che altera definitivamente la regolarità dei giorni e delle abitudini. Quella X, incisa sull’uscio dell’abitazione, avverte che un altro soggetto è deciso a impossessarsi del singolo io abitante in quella casa, ed è pronto a risucchiare dalla sua coscienza il tempo privato, la sostanza intera della vita vissuta e le tracce materiali che ne identificano la storia. La casa stessa e i libri posseduti e tutto ciò che si è accumulato nelle stanze, la sequenza dei ricordi e la potenza delle emozioni sono in pericolo.

Dopo i racconti delle Maestose rovine di Sferopoli, il nuovo sontuoso romanzo di Michele Mari, Locus desperatus (Einaudi, pp. 136 € 18,00) trascina il lettore in un viaggio destabilizzante, che mette in gioco l’idea stessa di Io, la persistenza mutevole delle memorie, il rapporto con gli oggetti materiali in cui la vita si incapsula e dura. Chi legge è risucchiato in un mondo in cui ogni dato vacilla e si sgretola. Spinto in un incubo a occhi aperti, si sente destabilizzato come il personaggio che dice io e racconta il proprio spaesamento. Le reminiscenze, le persone conosciute, le abitudini sembrano perdere la loro prossimità. Perfino le cose inanimate fuggono via, trascinate dal medesimo processo che intacca ogni certezza.

Le cose che ci appartengono, si sa, non sono neutre. Hillmann ha scritto che «anche quando sono sbrecciati, spuntati, logorati dall’uso, i vecchi oggetti sono pieni di carattere: per la loro familiarità, per la loro utilità e a volte per la bellezza che gli viene dalla superficie lucida, dalla patina, dal modo come sono stati progettati. O, più semplicemente, dal fatto di essere vecchi, dalla vecchiezza essenziale».

Quando la «crepa dell’incongruenza» incrina l’automatismo degli atti, «la tua identità non è più in questa o quella stazione, ma nel movimento in se stesso, nel ritmo che conferma e tradisce, che ritorna e che fugge, allora in questo delirio ci si aggrappa alle cose che sole possono dirti chi sei, sei il loro proprietario tu pensi, ma per fortuna è il contrario, sei tu il posseduto, sei tu la cosa, éeiwhiúuk’ksadmée, come mi disse una volta un vecchio tagliacarte, ‘sei più cosa di me’». Nella luce di questo universo ogni elemento non è al posto fissato. Le abitudini saltano e l’altrove è lo scenario in cui i giorni prendono forma e contenuto, mentre l’Io è «gettato nel caos adiaforo della reversibilità». Restaurare il passato diventa un’operazione simile alla ricostruzione filologica di un testo, secondo i cui protocolli la crux, utilizzata per il locus desperatus, indica «una parola o una porzione di testo scorretta ma non emendabile, o una lacuna non ricostruibile».

Chi parla teme di trasformarsi nel proprio doppio: un ultracorpo simile e diverso dalla matrice che ha soppiantato. I personaggi che attraversano il teatro insieme realistico e immaginativo su cui gli eventi procedono hanno nomi e ruoli fantastici. Sileno si annuncia con il verso foscoliano «non son quel che fui: perí di me gran parte» e si descrive come «uno degli ultimi uomini-morchia, forse l’ultimo». Asfragisto, che minaccia d’impossessarsi dell’esistenza del protagonista, sembra uscito da un racconto di Hoffmann e lascia dietro di sé tracce che, in maniera esplicita, collegano la sua apparizione al ragno nero di Gotthelf. Una galleria di filigrane letterarie popola l’universo del romanzo e risuona come un’eco prolungata.

Gli autori prediletti appartengono alla sfera del cinema e del racconto fantastico: dal Kubin, notturno e inquietante, dell’Altra parte al Lovecraft, straniante e misterioso, del Necronomicon. Proprio come in un racconto di Lovecraft, i lettori sono risucchiati in un vortice che attira pagina dopo pagina. Le ambivalenze affettive del passato, i traumi mai del tutto risolti di un’infanzia ancora sanguinosa riportano a un sottosuolo pieno di misteri e di ombre.

In un passaggio del romanzo Mari dichiara la fusione tra questo nucleo segreto di ansie e le parole che danno a queste paure linguaggio e forma. Le une non sono separabili dalle altre. Ne sono piuttosto alimento e sostanza: «La mia vera forza, la tristezza, inattingibile ai nesci ma anche ai piú consci, come uno stato di impermanenza, affatato. Lì dentro, lì sotto, gli orrori più vari si mescolavano alle immagini belle dell’arte, contaminandole, certo, trasformando la grazia in raccapriccio, ma desumendone anche una forma, a suo modo decorativa, pensabile e ripensabile, ludicamente, fino allo stordimento e all’oblio».

Raccontare una zona misteriosa della soggettività, penetrare, con l’opulenza di una lingua e di uno stile personalissimi e insieme fitti di echi, nei territori su cui cresce l’inconsapevolezza, attraversarli con la scure affilata della parola e della letteratura, è un buon metodo per tendere a un’intelligenza del vivere e delle sue complicate antinomie. In fondo, come si dice citando il Conrad di Cuore di tenebra e il Coppola di Apocalypse now, «L’orrore… l’orrore ha un volto, e bisogna essere amici dell’orrore».