«Bagliori improvvisi, fiammate lievissime di impalpabile nebbia fosforescente, misteriosi accordi rivelati dal subitaneo schiudersi di una ignorata pupilla, finora cieca, che rivela il mondo di tutti i giorni secondo un volto così inusitato da trasformare gli incontri più abituali in tenerissime agnizioni». I vecchi e malinconici ricordi della lettura di Pittura e Controriforma, il più bel libro di Federico Zeri, vengono ridestati da un’occasione, piccola ma speciale, alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini: la mostra Michelangelo a colori, pensata intelligentemente da Yuri Primarosa e curata da Francesca Parrilla e Massimo Pirondini (fino al 6 gennaio, catalogo De Luca, e 32,00).
Nove dipinti, una stanza: il tema, le derivazioni pittoriche da modelli di Michelangelo nel clima abbrunato della Controriforma e del tardo manierismo a Roma. Così vanno fatte le mostre, senza dispendi e concentrate: che per essere ‘di studio’ hanno tutta la chiarezza in grado di ‘arrivare’ anche al pubblico dei semplici interessati, fornendo un segmento di cultura che renda pieno e significante il godimento estetico. Il museo fa perno su uno o più pezzi delle proprie collezioni per stringere, con prestiti mirati dall’esterno, su uno specifico problema storico-critico. La formula ha una storia, che fa capo in particolare alle mostre-focus del Louvre; la direzione di Palazzo Barberini, nella persona di Flaminia Gennari, sembra volerla proporre con una certa costanza metodica.
Marcello Venusti, Lelio Orsi, Marco Pino, Jacopino del Conte: interpreti diversi, nel terzo quarto del Cinquecento, del verbo michelangiolesco, che nei tre lustri prima della metà del secolo si era manifestato, terribile e desolato, con il Giudizio Universale e poi con la Cappella Paolina, radicali messe in discussione, soprattutto nel concetto di spazio, dei capisaldi della razionalità classicista rinascimentale. Tutti nati tra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio del Cinquecento, dunque già più che maturi quando giungono all’appuntamento qui considerato, i quattro si riferiscono, per riprodurli in pittura, a precisi prototipi, cioè, in particolare, alcuni disegni e «cartonetti» che il Buonarroti aveva realizzato, «per amore e non per obrigo», con lo scopo di donarli ad amici (Vittoria Colonna, Tommaso de’ Cavalieri…) e collezionisti. Queste riproduzioni pittoriche, a loro volta, vengono incontro alle richieste pressanti degli amatori, che desiderano possedere nelle loro stanze, spesso per ragioni di intimismo devozionale, un pezzetto di Michelangelo «a colori»: questo allettante brano di storia del gusto, certo studiato, meriterebbe una trattazione diramata e a tutto tondo.
A parte tre opere sganciate dai confronti, la mostra si articola in pannelli (rosa) dove il disegno di Michelangelo è presentato, in un facsimile perfettamente leggibile, accanto alle sue derivazioni. Eccetto l’‘improvviso’ arrovellato e fiabesco dell’Annunciazione di Lelio Orsi (proveniente da Novellara, paese natale dell’artista), che conserva, nel confronto con il michelangiolismo romano del momento, tutta la libertà edonistica del manierismo emiliano, le opere convenute documentano – fra melanconico, mistico, cerebrale – l’inquietudine del crollo dei valori cui aveva voluto rispondere la Controriforma. Zeri, nel suo libro Einaudi del 1957, mostrò, con una chiarezza di pensiero scaturita più dal suo rapporto quasi medianico con i pittori del tempo che dallo sforzo di documentazione storica, come lo spirito del fenomeno che chiamiamo Controriforma avesse agito sulla produzione artistica al di là dei precetti (la «regolata mescolanza» teorizzata nel 1564 da Giovanni Andrea Gilio), insinuandosi, anche prima del Concilio di Trento (1545 l’inizio), in zone della sensibilità permeabili al sentimento della crisi: caso esemplare, la «conversione» anni venti di Sebastiano del Piombo. Resta curioso che in un libro tutto speso a delineare, intorno alla figura tarda e riassuntiva di Scipione Pulzone, uno sviluppo dell’arte sacra sganciato, sotto il segno dell’impersonale e del meccanico, dalla vitalità delle condizioni storiche, fino al puristico «santino», Zeri abbia potuto sbalzare figure d’artista piene di fascino individuale, al punto da rendersi memorabili, a volte magari al di là dei loro reali meriti.
Insieme a Giovanni de’ Vecchi, còlto nella sua consanguineità ‘farnesiana’ con Blocklandt ed El Greco, beniamino di Zeri è Marcello Venusti, il vero protagonista di questa mostra, sul quale Francesca Parrilla si accinge a pubblicare una monografia, che potrà risollevarlo definitivamente, come chiedeva lo storico dell’arte romano, dalla zona grigia in cui era stato «respinto dalla volgarità e dal pessimo gusto decadente di Ruskin e compagni».
«Né il sole né la morte si possono guardare fissamente», e neanche Michelangelo: il valtellinese romanizzato Venusti, non potendo reggere il confronto diretto con il titanismo del Buonarroti – di cui pure fu intrinseco da riprodurne in piccolo, nel 1549, per il cardinale Alessandro Farnese junior, il Giudizio, opera oggi a Capodimonte –, traduce le sue immagini su un registro che sì le depotenzia, ma anche le piega a un diverso ordine di valori, non certo ignaro della tradizione raffaellesca.
I disegni di Michelangelo qui considerati sono l’Annunciazione della Pierpont Morgan Library di New York, L’Orazione nell’orto degli Uffizi, il Cristo crocifisso vivo del British Museum di Londra. Nel trasferirli su tavola o su rame, Venusti li tuffa in un’atmosfera dimessa e colorata – il senso del colore veneto già assorbito negli anni di formazione a Mantova, e consolidato a Roma sull’esempio magistrale di Fra Sebastiano. Entro questa atmosfera i corpi staccano con un senso plastico quasi contraddetto dalla giudiziosità ‘miniaturistica’.
Michelangiolismo a passo ridotto: piccoli «poemi della solitudine» (Zeri) che documentano un modo mèsto e ‘soffiato’, per quanto lancinante, di accostarsi al dramma della Salvezza, affatto diverso dal faccia-a-faccia «luterano» del Buonarrotti, quantunque partecipi entrambi di uno stesso turbamento teologico, facente capo al circolo degli Spirituali. Nel caso dell’Orazione, presente in due versioni – una di Palazzo Barberini, l’altra proveniente da Spoleto –, è interessante la differenza di trattamento cromatico, più lirico nella prima, più risentito e acidulo nella seconda, per la quale viene proposto di vedere un collegamento con il Greco, come Venusti di casa alla corte farnesiana.
In formato più grande, con la Deposizione di Cristo dell’Accademia di San Luca, restaurata per l’occasione, Venusti mostra di trovarsi a suo agio anche sulla corda del patetismo grandioso: ma la tela è replica letterale di un originale perduto di Sebastiano del Piombo, dipinto a partire da disegni di Michelangelo. Il carattere documentale, un tassello di comprensione per il sodalizio fra i due grandi maestri intorno agli anni trenta, non impedisce di apprezzare in alto grado le qualità specifiche apportate da Venusti, che riguardano non tanto l’organicità perentoria dell’impianto plastico, piuttosto quel certo modo pietistico di oscurare l’atmosfera, di ‘spegnere’ le luci, coi colori a «bagliori improvvisi», a «fiammate lievissime», che è solo suo.
Quanto di più lontano dalla Deposizione di Jacopino del Conte, della stessa Galleria Barberini, già in Palazzo Massimo, che interpreta nel modo più esteriore e scenografico le istanze controriformistiche: il modello michelangiolesco di base è una scultura, la Pietà Bandini. Lo spazio è procombente, le figure ‘atteggiate’ entro il gioco troppo prestabilito delle diagonali, il corpo di Cristo caricato di notazioni anatomiche e di lividore come in un horror movie: nonostante l’apprezzamento della tavola da parte dei nuovi studî, noi restiamo sull’aggettivo «luguberrima» utilizzato nel ’51 da Zeri (che l’aveva restituita a Jacopino tre anni prima), nonostante appaia troppo deterministica, oggi, la sua idea di connettere questo scadimento formale del pittore con la seduzione che subì da Sant’Ignazio di Loyola in persona. Ma che questo dipinto indichi al più alto livello di esemplarità la «sostituzione di una maschera al volto reale operata dal cattolicesimo tridentino» (Zeri, 1978), nessun dubbio.
Meglio rivolgersi, più in là, al Cristo vivo sulla croce riferito ragionevolmente a Marco Pino nel suo tempo tardo, agganciandolo al disegno di Michelangelo al British Museum. A differenza di Venusti, che sottrae il Cristo michelangiolesco alla sua straziante solitudine per popolare la scena con le figure degli astanti (una specie di patchwork), Marco Pino si attiene letteralmente al modello, ma allunga e intenerisce, con un sottile vibrare luministico, il corpo del Salvatore, che si stacca dal nero pece, la notte oscura di San Juan de la Cruz.