«L’indipendenza non è un’ideologia, è un risultato storico che si raggiunge sommando molte libertà che in questo momento in Sardegna non sono garantite. Restituire centralità politica alla Sardegna non vuol dire che nei prossimi cinque anni raggiungeremo l’indipendenza. Significa piuttosto che utilizzeremo tutta l’autonomia che abbiamo a disposizione nell’attuale quadro istituzionale, ma sino a mostrarne i limiti. Limiti che vanno superati».

COSÌ MICHELA MURGIA durante la campagna elettorale per le regionali sarde del 2014, in cui la scrittrice, come candidato del blocco indipendentista Sardegna possibile, contendeva ai leader del centrosinistra e del centrodestra, Francesco Pigliaru e Ugo Capellacci, il governo della regione. Fu Pigliaru a spuntarla. Sardegna possibile, nonostante avesse raccolto il 10 per cento dei voti, per effetto di una legge elettorale capestro non riuscì a eleggere neppure un consigliere. Resta, per l’oggi, quell’idea: l’indipendenza si ottiene «sommando molte libertà». Resta a dirci che Michela Murgia si muoveva, già da allora, dentro le coordinate di un pensiero che metteva al centro, nella visione generale e nelle singole scelte, la persona e i suoi diritti, ossia le sue libertà.

Non usiamo a caso il termine «persona». Michela Murgia ha avuto una formazione che mai ha rinnegato. L’esperienza nell’Azione cattolica da giovanissima e la laurea in teologia alla Pontificia università di Cagliari non sono episodi marginali delle sua biografia. Le radici della sua educazione cattolica, Murgia non le ha mai recise.

I VALORI ALIMENTATI da quel ceppo hanno continuato a operare nelle analisi e nella pratica della militante femminista, antifascista e per i diritti. Sono rimasti attivi sino alla fine, sino alla polemica di pochi giorni fa con il sindaco di Ventimiglia: «Hai negato la più elementare dignità umana a persone senza nient’altro che l’acqua del cimitero». «Dignità umana», «persone». L’ha declinata nella direzione del più assoluto rispetto delle libertà, Michela Murgia, la sua eredità cattolica. Da Tutto il mondo deve sapere (contro il lavoro precarizzato che marginalizza, che umilia, che uccide) ad Ave Mary (contro l’annullamento della soggettività femminile operato dal tradizionalismo cattolico) sino all’approdo queer che supera i femminismi in una visione in cui il concetto stesso di genere diventa un limite intollerabile, la bussola è sempre stata il rispetto della dignità umana che si fonda sulla tutela, senza condizioni e al grado massimo, delle possibilità e dei desideri di ciascuno, delle libertà individuali. Sino a picconare la visione tradizionale di famiglia, baluardo ideologico di tutte le destre, comprese quelle cattoliche.

Tutto ciò che nega le libertà è un nemico contro il quale si deve combattere anche a mani nude se è necessario, anche sino alla testimonianza solitaria ed estrema, anche sino al martirio. Le mediazioni non sono ammesse, la verità va difesa intera, non importa se il prezzo da pagare è altissimo, non importa se si deve diventare duri al limite dell’intolleranza («Sinché il patriarcato è principio dominante, dovremo usare il piede di porco»).

STANNO IN QUESTA PASSIONE per la verità che non ammette buone maniere – una passione da «folle in Dio» – le motivazioni profonde della lotta di Michela Murgia contro i fascismi e contro l’ordine patriarcale, due facce della stessa medaglia. Combattuti, fascismi e patriarcato, come uno scandalo, come un’intollerabile ferita alla dignità umana che chiama alla rivolta, morale prima ancora che politica.

Di fronte alle cose che da militante Michela Murgia ci lascia, torna alla mente una foto in cui Simone Weil, resistente al franchismo, sorride davanti all’obbiettivo che la riprende con il fucile a tracolla durante la guerra civile spagnola. Contesti storici diversi, ma simili le radici – e in fondo anche i modi – della rivolta.


Il saluto di Aldo Tortorella e Vincenzo Vita