Di sé diceva di essere pudico. Forse è per questa sua riservatezza che i registi – come ha spesso raccontato – gli «affidavano» i loro segreti? Valeva per tutti coloro coi quali ha lavorato negli anni, che l’avevano scelto per un film, per un personaggio ma anche, o forse soprattutto – per renderlo parte delle proprie immagini: era qui lo spazio in cui si giocava quell’intimità? «Un attore e un cineasta sono due persone che si studiano reciprocamente. Io lavoro con un regista cercando di capire perché mi ha scelto, per andare il più vicino possibile al suo mistero» diceva in un’intervista al quotidiano «Liberation» Piccoli nel 2011. Certo è che il suo corpo magnetico, elegante, sospeso tra ironia e svagatezza sapeva modulare sfumature impreviste, rendere «vera» l’oscillazione di realtà e fantasmi, svelare il desiderio in forme inaspettate, vagabondare dall’ironia alla ala tenerezza, essere brusco, respirare l’aria del tempo e guardarla da lontano.

Riusciamo a immaginare qualcun altro vestito da papa, nelle strade capitoline, che fugge dal suo pontificato – anticipando ciò che accadrà davvero – come fa lui in Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti? Poteva essere paradossale, persino stonato, e invece Piccoli sa renderlo «reale» nella sua angoscia, nei suoi vezzi, nelle fughe della fragilità.

CORRENDO indietro nel tempo, eccolo sotto al cielo azzurro di Capri in Le Mépris (Il disprezzo, 1963) di Godard, quasi uno schiaffo all’ineluttabile della fine di un amore che vive il suo personaggio, Paul, sceneggiatore, la cui compagna, Camille – col broncio seducente di Brigitte Bardot- giorno dopo giorno lo odia un po’ di più. Di fronte al pasticcio di un’industria cinematografica che metterebbe briglie e museruola persino a Fritz Lang, Paul/ Piccoli commenta che «il cinema è meraviglioso». La ragione? «Vediamo delle donne, hanno addosso i vestiti, fanno il cinema e tac, vediamo il loro culo». Impenetrabile Paul. Eppure non abbastanza per non sussurrare a lei, a Camille « Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente». Godard e i suoi segreti?

Ieri Michel Piccoli è morto a Parigi, aveva 94 anni, pensando a lui è come se la sua presenza attraversi tutto il cinema moderno e contemporaneo, un caleidoscopio di figure, di sguardi, di fisicit che lo porta da Bunuel a Carax, da Marco Ferreri a Manoel De Oliveira, da Godard a Ruiz, da Rivette, Resnais, Cavalier, Malle, Doillon, Del Monte, che viene quasi da chiedersi se non era lì sempre, se non era diventato il cinema lui stesso. Aveva paura di fermarsi, Piccoli, meno nel cinema e più nella vita, la sua era sempre stata impegnata nel mondo, socialista, oppositore strenuo della destra francese del Front national, voce ferma contro il razzismo e a favore dei sans papiers – «Bisogna rimanere vigili rispetto al posto che si occupa nel mondo, vivere senza politica è da pigri» diceva. Forse perché era cresciuto in anni duri, la guerra, il nazismo, che lo avevano colto ragazzo ma già abbastanza adulto per scegliere da che parte stare.

ERA NATO  a Parigi, Piccoli, nel 1925, famiglia borghese di artisti, il padre era un violinista di origine italiana, Henri Piccoli, la madre, Marcelle Expert-Bezançon, una pianista, la narrazione vuole che Piccoli scopra la sua attitudine alla recitazione da ragazzino, quando aveva appena nove anni, prendendo parte a un saggio scolastico. Già perché gli esordi dell’attore Piccoli sono sul palcoscenico, e anzi il teatro rimane una parte importante nella sua ricerca artistica, cosa di cui era fiero – tra i registi con cui lavora ci sono Jacques Audiberti, Jean Vilar, Jean-Marie Serreau, Peter Brook, Luc Bondy, Patrice Chéreau, André Engel. Un bel riscatto a quell’interruzione brusca del sogno di essere attore a cui lo aveva costretto diciottenne la guerra. Appena finita i Piccoli tornano a Parigi, il giovane Michel lavora con le compagnie Renaud-Barrault e Grenier-Hussenot e col Théâtre de Babylone gestito da un gruppo operaio, con cui porta in scena Beckett e Ionesco – è qui che incontra Eléonore Hirt, la sua prima moglie, dalla quale si è separato nel 1966.

 

Il cinema è già lì, piccole parti però, «comparsate» – come in Sortilèges di Christian-Jaque. Intanto studia, frequenta i corsi di recitazione, e il grande schermo gli offre con Le Point du jour (1949) di Louis Daquin la prima occasione da protagonista, mentre nel ’54 lo notano in French Cancan di Renoir

Tutto cambia con Luis Bunuel. Insieme gireranno sei film, capolavori come Il diario di una cameriera o Bella di giorno – e a Catherine Deneuve Piccoli sarà accanto molte volte; pensando ai «segreti» dei registi per Bunuel Piccoli è il doppio con cui dare forma ai suoi universi, e sia che interpreti un borghese frustrato e libidinoso o un prefetto di polizia regista e attore diventano complici nel capovolgere le rappresentazioni tradizionali, liberando personaggi che si lasciano andare alle proprie pulsioni.

AI TEMPI di La selva dei dannati, la loro prima collaborazione, (1956) Piccoli però era uno sconosciuto, sembra che avesse lottato per quella parte, il prete, padre Lizzardi che nella giungla dà fuoco al suo breviario. Bunuel ha riscritto il ruolo su di lui dicendogli che doveva capire sostanzialmente una cosa, che il personaggio era un idiota e sbagliava tutto ciò che faceva. –
Poco dopo, appunto, Le Mepris, Piccoli diviene un’icona e un sex symbol. Sono gli anni ’Sessanta (nello stesso periodo ricordiamo Lo spione di Melville, 1962) che a Saint German lo vedono insieme a Sartre e a Boris Vian, si innamora di Juliette Greco – che sposa – viaggiando con lei nell’allora Unione sovietica.

E poi? E poi c’è Marco Ferreri, corrosivo e geniale, che trova anche lui in Piccoli il suo «doppio» dalla prima volta – faranno sei film insieme – col Glauco di Dillinger è morto (1969), che ripete «Bambina» davanti allo schermo tv alle ragazzine di una qualche inchiesta sulle adolescenti, trucco e rossetto per mettersi in finestra. E, naturalmente La grande abbuffata (1973), il week end orgiastico di cibo e di morte – il personaggio di Piccoli muore soffocato – di un gruppo di amici che schiatta tra rutti, scoregge, vomito, ritratto di un machismo (di un potere?) vorace, che divora il sesso come il cibo, volgare, egoista mostrato senza convenzioni di patina edulcorante difatti al Festival di Cannes tutti inorridirono, fischiarono – ma come e il buon gusto? E il pudore? Mentre Ferreri venne costretto a tagli pesanti.

POSSIAMO andare avanti a lungo perché nella sola filmografia di Piccoli ci sono almeno 150 titoli. Vorrei però fermarmi ancora su due, che ancora una volta sono esempio di splendidi doppi: La Belle Noiseuese di Rivette (1991) e Je rentre a la maison di De Oliveira (2001). Nel primo – Gran premio a Cannes, adattamento di Balzac – Piccoli è un pittore che si è ritirato e accetta di riprendere il pennello in mano quando una giovane donna (Emmanuelle Béart) gli chiede di posare per lui. Nel secondo – anche con De Oliveira Piccoli ha collaborato a lungo, attraverso cinque film – è un attore che si è ritirato dalle scene dopo la morte di quasi tutta la famiglia in un incidente di auto mentre lui recitava, e vive col nipote unico superstite. Entrambi narrano una relazione, una vicinanza, il sentimento fragile della vita e della morte. Qualcosa che è invisibile, che appare negli istanti di una magia rara, la materia del cinema.