È di nuovo disponibile Cover to Cover (1975) in edizione facsimile del grande artista canadese Michael Snow. Gli poniamo alcune domande online.

Penso che sia la prima volta che lei decide di ripubblicare una ristampa esatta di una delle sue creazioni editoriali. Mi chiedo se si possa leggere l’operazione alla luce di una caratteristica riconducibile alla sua arte, un proliferare di opere da questa o quella matrice.

Tutto giusto, e potrei anche andare oltre dicendo che dopo aver realizzato un LP, The Last LP, un paio di anni dopo ho fatto uscire The Last LP CD, un altro formato che, a sua volta, è sostanzialmente estinto.
Le copie dell’edizione originale di Cover to Cover sono andate esaurite da anni, tanto che mi è stato spesso chiesto se ne avessi una in più. Inoltre, qualche volta una copia è anche riapparsa disponibile in rete, ma usata, e ad un prezzo assurdo. Alcuni anni fa, James Hoff di Light Industry mi disse che gli sarebbe piaciuto ristampare il libro, ma allora non ero pronto. Quando è ritornato a farsi vivo pochi mesi fa per fare una edizione del libro in facsimile, conoscendo la qualità del loro lavoro, ho accettato.

La sua attività artistica è polimorfa, caratterizzata dal riemergere di concetti e immagini attraverso forme diverse. Come lavora in questo paesaggio eclettico?ù

Avevo cominciato a suonare jazz al piano mentre ero al liceo, e poi ho continuato quando studiavo all’Ontario College of Art, dove ho seguito tra l’altro un corso di design in cui c’erano, anche, elementi di pittura e scultura.
Penso le forme artistiche in categorie tradizionali, e quindi la pittura come arte delle superfici, e la scultura come arte degli oggetti. Le idee che ho per possibili opere tendono ad apparirmi con una domanda del tipo, «Questa forma oggettuale potrebbe essere interessante?» Per esempio, per un periodo di tempo, ho realizzato una serie di sculture individuali come Scope, Blind, First to Last, e Transformer, ognuna delle quali riguardava il lavoro di «direzione della visione» dello spettatore. Inoltre, c’è il «profilo» della Walking Woman che si ritrova in ogni mio lavoro tra il 1961 e il 1967 – pittura, scultura, poi film (musica inclusa), fotografia, istallazioni.

«Cover to Cover» è «un quasi-film»: una specie di meta-libro fotografico. Come definirebbe la forma artistica e, quindi, l’opera d’arte?

Ritornando alla mia dichiarazione sulla pittura come superficie e la scultura come oggetto, ogni idea sviluppa la sua forma naturale mentre considero le sue ramificazioni e possibilità. Quando ho completato un’opera, posso riflettere sulle opzioni possibili, forse attraverso un altro mezzo o forma.
C’è da pensare che cosa richiede la presenza del pubblico.
Per esempio, un film proiettato (celluloide) è destinato ad un pubblico seduto in una situazione «da cinema», con un inizio e una fine definiti. Un video, ora digitale, è meglio per un pubblico in una galleria o un ambiente museale, in cui il va-e-vieni è inevitabile.

In «Cover to Cover», seguiamo una storia fronte-retro. Nel 1974, lei realizza una istallazione 16mm, «Two Sides to Every Story», in cui rompe il punto di vista della macchina da presa. Nel libro, abbiamo qualcosa di simile: alla fine, scopriamo che c’è una specie di loop, e che quindi dobbiamo rovesciare l’orientamento della lettura. Qui si può notare lo scetticismo ironico verso qualsiasi illusione narrativa e l’idea che le immagini posseggano una supposta verità indessicale. Potrebbe dirci qualcosa in merito?

Sono colpito da quanto dici. È difficile aggiungere qualcosa in più. Un buon esempio di scetticismo ironico è il mio film So Is This, didattico e giocoso al tempo stesso.

Il meta-livello e la riflessività nella sua poetica non sono ammiccamenti postmoderni. Sono decostruzioni pedagogiche. Quanto sono importanti le considerazioni tecniche, cognitive, e materiali?

Agli inizi della mia carriera ero in grado di creare tutti gli aspetti dei miei lavori; oggi, la svolta informatica ha reso necessario l’aiuto di specialisti.
Le considerazioni tecniche e cognitive sono diverse in ogni singolo lavoro. Per esempio, per realizzare le immagini che avevo in mente per La Région Centrale, è stato necessario inventare un macchinario apposito. Alla fine, ho trovato la competenza di cui avevo bisogno in Pierre Abeloos al National Film Board of Canada di Montreal.

Leggo la sua opera come un insieme sfaccettato di saggi sulla crisi irreversibile della soggettività moderna e delle sue categorie linguistiche e cognitive. Ma lei evita il concettualismo, come se ci fosse un modo giocoso di includere gli spettatori senza frustrarli. Come considera il pubblico, e che ruolo dovrebbe avere lo humor?

Quando creo qualcosa che mi piace, spero che il piacere possa essere condiviso. Considero il pubblico in questo modo. Tuttavia, non comincio cercando di essere apprezzato o di successo. Quando le persone trovano humor nel mio lavoro, sono contento ma un po’ disorientato. So Is This ha alcuni buoni momenti: è deliberatamente divertente. Anche alcune parti di Rameau’s Nephew lo sono.

Immobilità e movimento, durata e ripetizione, tutti i suoi film evocano la musica. Come articola le attività di musicista e filmmaker? Nei suoi pezzi, usa spesso l’improvvisazione. Nel suo lavoro per il cinema lascia mai spazio al caso?

Pianifico sempre in anticipo i miei film, ma sono interessato al caso. C’è poca improvvisazione nei brani delle colonne sonore, eccetto in New York Eye and Ear Control, dove i musicisti erano senza alcun riferimento relativo al film. Ne La Région Centrale, invece, ho improvvisato una colonna sonora (con sintetizzatore) dopo aver completato il montaggio. Cityscape ha anche una colonna sonora in post-produzione per seguire i movimenti della macchina da presa. Per Condensation (A Cove Story), ho allestito una videocamera in time-lapse per registrare eventi meteorologici visti dall’angolo della mia baita in una parte remota di Terranova. Nel montaggio finale, ho fatto affidamento alla mia intenzione originale emersa nei pattern ambientali registrati. Questo potrebbe essere un esempio di possibile fusione di pianificazione e caso.

«La Région Centrale» (1971) è un film che sintetizza l’avanguardia del XX secolo: allo stesso tempo, apre a nuove strade. Cos’è per lei quest’opera? Può dirci qualcosa anche di «Cityscape» (2019), il nuovo film in 70mm che ha realizzato a Toronto impiegando alcuni dei dispositivi formali de «La Région Centrale»?

La Région Centrale è la culminazione di una serie di lavori che trattano il movimento di macchina, la prima delle quali fu Wavelength, seguita da Back and Forth e Standard Time. Tutti questi film mostrano, in modo deliberato, interni: stanze. Così ho voluto realizzare qualcosa sul movimento ma in uno spazio completamente aperto, e questa è diventata l’ambizione di fare un «film paesaggio».
Quando il mio amico Graeme Ferguson ha visto La Région Centrale, mi ha immediatamente suggerito di fare una versione IMAX – sistema che ha co-inventato – ma a quel tempo non ero interessato. Cityscape dura solo 10 min. Cityscape non è precisamente girato in interni, e non è un paesaggio, anche se è stato girato in Imax. Inoltre, è girato dalle Toronto Islands, appena al largo del Lago Ontario, ed è il solo lavoro che ho fatto che contempla la mia città natale vista da «fuori».

(Trad. di Gianluca Pulsoni)