Meyerowitz, le immagini che danzano
Intervista Parla il maestro americano della street photography, in mostra a Reggio Emilia presso Palazzo da Mosto, nel circuito di Fotografia Europea. «L’ambiguità è presente nel modo di guardare le diverse cose che appaiono nell’inquadratura»
Intervista Parla il maestro americano della street photography, in mostra a Reggio Emilia presso Palazzo da Mosto, nel circuito di Fotografia Europea. «L’ambiguità è presente nel modo di guardare le diverse cose che appaiono nell’inquadratura»
Come rimanere indifferenti alla vitalità esplosiva di New York? Camminare per le strade, su e giù per Manhattan, è già di per sé una quinta scenica elettrizzante, seducente, risucchiante. Oggi come allora: era il 1962 quando Joel Meyerowitz (New York 1938, vive e lavora tra l’America e Buonconvento, Siena) prese in mano la macchina fotografica di un amico e lasciò che quell’incontro fortuito cambiasse per sempre la traiettoria della sua vita. Oggi il suo archivio contiene cinquantamila stampe.
A rintracciare il percorso di questo maestro della street photography – i cui lavori fanno parte di collezioni come l’International Center of Photography, il MoMa (dove nel ’68 fece la prima personale Photographs From a Moving Car), la New York Public Library e il Museum of Contemporary Photography di Chicago – è la mostra Joel Meyerowitz: Transitions, 1962-1981 (a cura di Francesco Zanot), ospitata nel Palazzo da Mosto di Reggio Emilia nel circuito di Fotografia Europea (fino al 17 giugno).
All’inizio degli anni ’60, iniziò a fotografare volendo «danzare con la vita di quelle strade». Per lei, ragazzo del Bronx, quanto è stato determinate che il «set» fosse New York?
Sono nato a New York, è lì che ho scoperto la fotografia, quindi è naturale che le prime immagini riguardino quella città. Iniziai a fotografare perché avevo visto ciò che Robert Frank aveva fatto per me. All’epoca, ero direttore artistico di un’agenzia pubblicitaria. In quelle immagini per la Kleenex vidi il suo modo di muoversi e anche quello in cui si muoveva il soggetto. Non sapevo che si potesse scattare mentre le persone erano in movimento. La fotografia che conoscevo era statica. Sono andato anch’io in strada e trovavo interessante tutto quello che guardavo, il modo in cui veniva spinta una carrozzina o si chiamava un taxi… Ogni momento poteva essere significativo e significante. Diventando fotografo potevo far parte del mondo. Non stavo più in ufficio, ma ero proprio lì, nel mondo, e potevo guardare come le persone fossero in relazione le une con le altre, oppure come non lo fossero affatto. Anche se, all’interno dell’inquadratura, avevano comunque qualcosa che le teneva unite. Mi piaceva perché era la fotografia a offrire questa possibilità. C’era il movimento fisico, la danza, la strada, la musica e l’aspetto visuale della sorpresa per qualsiasi cosa.
In quegli anni fu molto importante l’incontro con altri due fotografi, Garry Winogrand e Tod Papageorge con cui ha avuto modo di scambiare continue opinioni…
La fotografia è un mezzo molto solitario, abitualmente si sta per conto proprio con la macchina fotografica, scattando in giro per il mondo. Ma Winogrand è stato un mio buon amico e per due anni lavorammo insieme per strada. Uscivamo e fotografavamo. Quando, nel 1965, Tod Papageorge giunse a New York si unì a noi. Eravamo tre giovani uomini appassionati di fotografia. Garry aveva dieci anni più di noi, mentre Tod e io avevamo più o meno la stessa età. Cercavamo un linguaggio per esprimerci, parlo di espressioni verbali perché veramente non sapevamo cosa dire a proposito della fotografia. Non c’era il dialogo che esiste oggi. Non c’erano festival né scuole e libri fotografici; nei musei non si organizzavano molte mostre fotografiche. Non c’era nulla! Io avevo solo tre volumi: The Americans di Robert Frank, Il momento decisivo di Cartier-Bresson e American Photographs di Walker Evans. Poi esisteva la rivista U.S. Camera Annual, pubblicata a fine anno. Raccoglieva le foto migliori: erano gatti, cani, tramonti, fiori oppure le bellezze, i divi del cinema. Noi cercavamo una forma dialettica che ci permettesse di discutere intorno alla fotografia. Ognuno usava l’altro per cercare di sviluppare un modo chiaro per descrivere quello che stavamo facendo e ciò che quelle fotografie significassero per noi. Il nostro insegnante fu John Szarkowski che nel ’62 fu nominato direttore del dipartimento di fotografia del MoMa. Scriveva cose meravigliose sulla fotografia e organizzò esposizioni veramente provocatorie. All’epoca non si campava con quel mestiere e non c’erano neanche spazi dove poter esporre i propri lavori. Nel ’62 l’unica galleria fotografica di New York, il cui proprietario era Norbert Kleber, si chiamava Underground gallery ed era in una vecchia lavanderia cinese in East 10th street nel Greenwich Village. Lì, nel ’64, vidi una mostra di Ansel Adams, il grande padre della fotografia americana. I suoi scatti venivano venduti per niente, solo 25 dollari. Ma nessuno li comprò.
L’ambiguità può essere considerata un elemento di raccordo tra la fotografia pubblicitaria, nel cui settore ha lavorato a lungo, e la street photography?
No, non penso. La pubblicità è un settore specifico. Si sta vendendo un prodotto o un’identità del marchio, perciò è necessario essere chiari. Bisogna creare un’immagine emozionale che induca le persone a esclamare: «Oh voglio comprare quell’automobile! Voglio avere quell’orologio!». L’ambiguità è presente nel modo di guardare le diverse cose che appaiono nell’inquadratura. Come nella fotografia in bianco e nero che ho scattato per strada, nel 1963, a Midtown, New York. Quella con la bambina inquadrata nel finestrino dell’auto. La sentii piangere e quando vidi quell’uomo enorme con quella sua mano verso di lei, mi resi conto che poteva essere interpretata sia come «vorresti questa caramella, piccola? Vieni con me», oppure come gesto di protezione. Volutamente, ho lasciato l’uomo fuori dall’inquadratura. Si vede solo la sua mano, una mano che ha potere. Non sappiamo che tipo di potere, come non si conosce il motivo per cui quella bambina stia piangendo. È proprio questa ignoranza – questo spazio vuoto – che è, in realtà, piena di ambiguità, a creare una certa energia, è una forza pulsante.
Si è definito un «missionario della fotografia a colori»: c’è una relazione con il lavoro di Stephen Shore e William Eggleston che, come lei, ne sono grandi interpreti e hanno esplorato il tema del viaggio?
Ho iniziato a scattare fotografie a colori prima di Stephen Shore e Bill Eggleston. Si può dire che probabilmente la ragione per cui Eggleston stesso prese a farlo fu perché, quando nel ‘68 venne a New York per incontrare i fotografi newyorkesi, una notte finì nel mio appartamento. Mi mostrò cinquanta scatti in bianco e nero e io gliene feci vedere trecento a colori. Quando andò via – alle tre del mattino e dopo aver bevuto quasi un’intera bottiglia di bourbon – arrivò alla porta, poi si girò e disse: «La fotografia a colori è tutto».
Sento di avergli dato quell’ispirazione. Abbiamo circa la stessa età, ma lui è di Memphis, Tennessee, viene dal sud, mentre la mia energia è tutta dentro New York. Lui, a sua volta, ha trasportato un po’ di quell’energia nel lavoro di altri giovani autori. Quanto a Stephen Shore è un fotografo che usa prevalentemente il banco ottico e ha incontrato il colore alla fine degli anni Sessanta. Credo che nessuno di loro possa essere considerato veramente uno street photographer, piuttosto un fotografo dello scenario americano.
Qual è, per lei, il rapporto tra ignoranza (non conoscenza), innocenza e intuito?
È molto ravvicinato. Quando si è innocenti, si deve sviluppare la propria pratica del mezzo. E si usa l’istinto per motivare il «fotografare». L’ignoranza significa non avere il senso della storia. Se l’intuizione porta alla volontà del fare, l’innocenza indirizza verso il desiderio di imparare. «Devo uscire per vedere e imparare». Queste tre cose insieme sono state le mie fondamenta.
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