Ogni sostantivo ha un’etimologia. Vale anche nel vocabolario del cinema. ‘Attore’ deriva dal latino actor, cioè ‘colui che agisce’. Se la diva o il divo di turno lo fa davanti alla macchina da presa, quelli che dietro la macchina da presa agiscono si chiamano regista, direttore della fotografia, montatore, costumista, attrezzista, elettricista, truccatrice… Si chiamano così, ma al grande pubblico le loro facce sono sconosciute, i loro nomi non dicono nulla. Questa distanza, comunque ingiusta, si annulla dentro i confini del cinema di qualità, che gode di spettatori attenti a leggere fino in fondo i titoli di testa e di coda. Lì, lo spettatore attento ha imparato a conoscere prima l’identità e poi ad amare, registi come Paolo Taviani, Giuliano Montaldo, Daniele Vicari, Wilma Labate; Gherardo Gossi, direttore della fotografia; Roberto Perpignani, maestro del montaggio; Francesco Bruni, sceneggiatore e regista. Non sono citazioni a caso, e invece elenco parziale di coloro che, nel novembre dello scorso anno, hanno dato corpo a un progetto, Fuori le ali, cui non stona affatto attribuire l’aggettivo di coraggioso. Un progetto e un’associazione nati su iniziativa della sceneggiatrice Silvia Scola, figlia dell’indimenticato Ettore, e di Marta Rizzo, studiosa del settore. Ricordate Le ali della libertà, i centoquaranta meravigliosi minuti diretti da Frank Darabont nel 1994 e ambientati nell’immaginario carcere americano di Shawshank? Viene da pensare che Marta, Silvia e il fitto gruppo di chi le ha seguite, si siano ispirati al titolo e alla storia di quel film prima di arrivare a scegliere Fuori le ali. E l’ipotesi si rafforza scorrendo il testo che spiega gli obbiettivi del gruppo «Far conoscere il cinema non come arte inarrivabile e privilegiata, ma come lavoro collettivo, artigianale, dove l’oggetto d’arte, il film, è frutto di mestieri diversi e peculiari, concertati tra loro. Scrittura, regia, recitazione, fotografia, scene, costumi, trucco, montaggio, suono, musica, entrano dentro le carceri minorili di Airola, Benevento, e di Casal del Marmo, Roma; poi alla Casa Internazionale delle donne. E in futuro nelle scuole di periferia, negli ospedali e, se si potrà, anche nelle case famiglia, nei centri antiviolenza e di accoglienza… Per testimoniare, se non per realizzarle e percorrerle, l’esistenza di nuove strade e soluzioni oltre la devianza, il dolore, il disagio mentale, fisico, psicologico, sociale». Poche righe, subito in grado di sgomberare il campo dal dubbio che si tratti di una delle tante e lodevoli iniziative culturali portate all’interno di un’emarginazione sociale estrema, e destinate purtroppo a lasciare labile traccia di sé. Racconta Marta Rizzo «Un paio di anni orsono mi ritrovai ad assistere per motivi di lavoro a uno spettacolo teatrale, La resistibile ascesa di Arturo Ui, di Bertolt Brecht, nel carcere di Rebibbia. Sul palco c’erano gli attori detenuti che avevano recitato per i fratelli Taviani in Cesare deve morire. Pensai che si potesse andare oltre la magnifica idea di Paolo e Vittorio. La sera stessa mi ritrovai a discuterne con Silvia. Il progetto, all’inizio, non si chiamava Fuori le ali, doveva svilupparsi insieme a un’altra associazione e svolgersi a Rebibbia. Solo in seguito ha avuto una sua precisa definizione ed è stato mirato alle carceri minorili». Silvia Scola «Il nostro obbiettivo era, ed è, spiegare ai ragazzi che il cinema nasce da un lavoro di squadra e quindi offre la possibilità di imparare tanti mestieri: falegname, elettricista, scenotecnico… Ci interessava raccontarlo in quanto risorsa, opportunità per un futuro diverso, prospettiva possibile cui guardare. La risposta degli amici che abbiamo chiamato ad aiutarci in questo compito è stata immediata ed entusiasta». Con identico entusiasmo hanno aderito, citazioni sparse in un lungo elenco, Il Centro Sperimentale Cinematografico – Cineteca Nazionale, la Scuola di Arte Cinematografica Gian Maria Volonté, il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, Gianni Rufini direttore di Amnesty International, Libera, Il Ministero della Giustizia. Nel Consiglio dei Garanti figurano, tra gli altri, Altan, che ha disegnato il logo di Fuori le ali, Luciana Castellina, Gigliola Scola, Dacia Maraini. E ancora citando, Felice Laudadio, Annalisa Forgione, Antonio Falduto… L’esordio sul campo, dal 24 aprile al 29 maggio, è avvenuto ad Airola, nell’ambito del progetto Il Palcoscenico della Legalità, gestito dall’Associazione CO2 di Giulia Minoli e Giulia Agostini. Ricomincio da tre, Amici miei, Il sorpasso, C’eravamo tanto amati, La banda degli onesti sono i cinque capolavori che, in altrettanti incontri, hanno aperto le porte nascoste del cinema ai giovani detenuti. Spiega Silvia Scola «Fuori le ali si articola in tre fasi. Una prima racconta quanto sforzo corale ci sia dietro un film. Il passaggio successivo vuole portare i ragazzi a realizzare un corto o un piccolo documentario sulla loro esperienza, accompagnati dai vari professionisti. Ultima fase la proiezione pubblica del corto o del documentario». Da Airola, il progetto è approdato, per restarci fino a luglio, all’IPM, Istituto Penale Maschile e Femminile per Minorenni di Casal del Marmo, dimensione carceraria di notevole complessità. A rompere il ghiaccio è stato, l’11 giugno, Giuliano Montaldo, che ha parlato nelle vesti di attore in Tutto quello che vuoi, di Francesco Bruni, 2017. Quanto sia lungo, contraddittorio, imprevedibile il cammino di Fuori le ali, lo esemplificane bene le domande di due adolescenti reclusi a Casal del Marmo e ad Airola. Ricordano Marta e Silvia «Il primo, mentre stavamo spiegando, ci ha interrotto ‘Va tutto bene. Ma come si fa a rubare nel cinema?’. E il secondo, cresciuto in terra di camorra ‘Quindi il vostro è come un clan. Il regista è il capo, e tutti gli altri sono gli affiliati’». Mamma Roma, 1962, soggetto, sceneggiatura e regia di Pier Paolo Pasolini. «Mamma Roma: E sai perché mi’ marito, er padre de Ettore, era un farabutto disgraziato? Pittorretto: Boh, so’ cavoli sua! Mamma Roma: Perché la madre era ‘na strozzina, e er padre un ladrone. Pittorretto: Perché allora la madre era ‘na strozzina, e er padre un ladrone? Mamma Roma: Perché er padre della madre era un boja e la madre della madre ‘n’ accattona, e la madre del padre ‘na ruffiana, e er padre der padre ‘na spia! Pittorretto: Dio liberaci dal male! Mamma Roma: Tutti morti de fame! Ecco perché! Certo se ci avevano i mezzi, erano tutte persone per bene! E allora de chi è la colpa? La responsabbilità?»

INTERVISTA A ROBERTO PERPIGNANI

Il lavoro di Roberto Perpignani ha un ‘prima’. Pur se si fatica a crederlo scorrendo l’elenco dei sessantaquattro film di cui, finora, ha realizzato il montaggio: da Il processo di Orson Welles, 1962, come assistente, fino a Una questione privata, 2017, l’ultimo film in coppia dei fratelli Taviani. Eppure è così, e quel ‘prima’ non poteva che fargli dire si al progetto di Fuori le ali. «In effetti posso pensare a una specie di destino. Da giovane, mentre studiavo pittura, frequentavo anche i corsi del Cemea, il Centro di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva. Perciò mi sono occupato di bambini e di adolescenti. Poi il cinema mi ha travolto. O meglio: è arrivato il cinema giovane degli anni ’60, e di conseguenza… Ma quel rapporto mi è rimasto dentro. Soprattutto perché bambini e adolescenti sono individui che stanno formandosi, sono portatori di qualcosa che occorre assecondare, potenziare». Nel 1976, arriva dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma la proposta di insegnare «Non sapevo bene cosa avrei detto, cosa avrei spiegato. Fu meraviglioso scoprire che il rapporto con i giovani mi metteva nella condizione di studiare insieme a loro. Ci sollecitavamo a vicenda, le lezioni erano dialoghi. Trovarsi di fronte a una realtà da dover decifrare, scoprire, evidenziare, è stata per me un’esperienza molto significativa. Che in quarant’anni ha seguitato a produrre». La via aperta oggi da Fuori le ali ha condotto Perpignani verso una realtà ancora diversa. Essere coinvolto in un’iniziativa che non trasmette alle nuove generazioni solamente la conoscenza del cinema come parte del patrimonio culturale italiano del ’900, lo ha spinto a riflettere, a guardare da una nuova prospettiva ciò che finora aveva fatto oltre al mestiere quotidiano «I bambini e gli adolescenti di cui mi sono occupato in passato erano persone problematiche. Dunque ho conosciuto bene cosa significhi avvicinare qualcuno che non ti viene spontaneamente incontro, ma che devi portare a te, lasciare che ti accolga. Ecco la ragione per cui ho subito accettato la proposta di Marta Rizzo e Silvia Scola. Ho detto ‘mi piace, porto la mia esperienza’». L’ingresso nel carcere di Airola e il primo contatto con i ragazzi ha accresciuto l’entusiasmo di Perpignani, quando ha percepito che la distanza da loro era minima, che sarebbe spettato a lui fare in modo di non accrescerla «Vedere un film e sapere che era stato montato da me ha messo in moto un meccanismo di condivisione. Salutandoci, i ragazzi mi hanno detto ‘Ahó, ma tu torni, no?’. Come a dire ‘Mica sarai venuto qui per fare l’opera buona della dama di carità e poi te ne vai’». Il sorriso nella voce dissolve in una pausa, in un istante di silenzio, per arrivare a una riflessione importante, forse la miglior sintesi del ruolo, del compito, che Fuori le ali si è assegnato «Mi piacerebbe tantissimo se questo progetto desse dei risultati di cui tutti noi, un giorno, potessimo vantarci. Vantarci nel senso di essere autorizzati ad affermare che i risultati sono visibili, hanno un segno non solo positivo, ma costruttivo. Questi giovani sono in una condizione che nessuno di noi vorrebbe vivere. Allora non si tratta di andar lì a compiere dei gesti di generosità. Andare lì vuol dire prendere coscienza che tutto questo ci riguarda ed essere consapevoli delle difficoltà da affrontare». Perpignani cita ad esempio concreto Airola e Castel del Marmo: due dimensioni simili e al tempo stesso differenti. Nella prima una popolazione carceraria legata alla malavita campana, nella seconda la forte presenza extracomunitaria. Due dimensioni in cui è necessario capire rispetto a ciascuna e sul momento, come parlare, discutere, ascoltare «Sono arrivato a un’età in cui potrei dire che la parte più indaffarata della mia vita l’ho passata, e godermi l’extra tempo. Ma quale extra tempo? Ho un sacco di cose da fare, vorrei mettere su un centro di studi sui linguaggi delle immagini e dei suoni… Eppure sento che se venissi meno a questo impegno, se abbandonassi Fuori le ali, verrei meno a un pilastro del mio senso civile”. Parole di un signore di settantasette anni, che al cinema e a tutti noi ha regalato il montaggio di Cesare deve morire.

INTERVISTA A LUCARIELLO, PROFESSORE DI RAP

Le immagini che accompagnano queste pagine sono frammenti di un video musicale, Puortame là fuore, girato all’interno del carcere di Airola. Raccontano di un’esistenza quotidiana che scorre consumando i giorni di ragazzi finiti lì perché, sentenza di giustizia, hanno sbagliato, sono colpevoli di questo, di quest’altro e di quest’altro ancora. Quelle immagini, con le facce oscurate dai pixel, i corridoi sbarrati, un’altalena in un cortile, le finestre come gabbie, i muri sbreccati delle celle mal nascosti da fotografie e disegni, creano, guardandole, una sensazione di impotenza, il dubbio angosciante di una libertà da lì in poi negata per sempre e per forza di cose, al di là degli anni di condanna e degli anni conteggiati fin lì dalla vita. C’è chi, e sono molti, senso di impotenza e dubbi angoscianti ha deciso di sconfiggerli entrando in carcere per lavorarci Al piccolo esercito degli operatori sociali sono andati aggiungendosi, numero in crescita nel tempo, uomini e donne del mondo dello spettacolo e della cultura. Uno di loro porta il nome di Luca Caiazzo, in arte Lucariello. Fiero esponente del rap italiano in lingua napoletana (così si definisce), quarantenne, figlio di Scampia, Lucariello ha all’attivo quattro album, l’ultimo, Il Vangelo secondo Lucariello, contiene una traccia dal titolo eloquente, Guagliune ‘e miez ‘a via; la sigla finale della serie Gomorra, Nuje vulimme ‘na speranza, scritta con il rapper Ntò; le collaborazioni con Almamegretta, Negramaro, Fabri Fibra, Caparezza e con il maestro Ezio Bosso nel brano Cappotto di legno. Lucariello, insieme a Raiz, canta Puortame là fuore «Sette anni fa mi chiamò un’educatrice di Airola per un incontro con i ragazzi. È un carcere di cui si parla solo quando succede qualcosa, dove si fanno pochi laboratori e poche attività rieducative. Dopo quell’incontro, mi misi in testa di tornare. Contattai una Onlus che lavora lì, la Co2, e organizzammo un corso di rap, linguaggio che appartiene molto ai giovani e argomento in grado di mantenere alta la soglia di attenzione». Lucariello figlio di Scampia è abituato a parlar chiaro: ad Airola impera la mentalità dell’aspirante boss; molti, nonostante possano restare al minorile fino a venticinque anni, non vedono l’ora di compierne diciotto per passare al carcere dei maggiorenni, e così ‘arricchire’ il loro curriculum. Il corso di rap ha prodotto un cd, cinque pezzi cantati dai detenuti. Poi un laboratorio di formazione professionale sui mestieri del teatro. I testi di Puortame là fuore, scritti dai ragazzi, sono frutto del laboratorio dello scorso anno sugli autori di canzoni, durato cinque mesi. Di recente l’incontro e la collaborazione con Fuori le ali «È stata un’esperienza molto bella. Il cinema riesce a creare una magia che attrae, crea interesse. Ma, è bene rendersene conto: tutto ciò che si fa, qui e altrove, è un granello di sabbia nel deserto. E perciò, ogni volta, solo un buon punto di partenza. Con Fuori le ali ho funzionato soprattutto da garante, perché i ragazzi mi conoscono, conoscono le mie canzoni, mi danno fiducia, condizione importantissima». Quanto può contare in un percorso di recupero il granello di sabbia della musica? «Spero possa servire. Il problema più grosso, però, non è tanto il recupero sul piano interiore, ma rispetto al fatto che questi ragazzi, una volta usciti, si ritrovano nelle stesse condizioni di prima, dopo aver trascorso anni a contatto con altri sovente peggio di loro. Il carcere, mi viene da dire, è una specie di scuola al contrario, in cui si costruiscono i criminali del futuro».

INTERVISTA A WILMA LABATE E DANIELE VICARI

Da Ciro il piccolo a Qualcosa di noi. E in mezzo La mia generazione, Genova per noi, Maledetta mia, Lettere dalla Palestina, Signorina Effe… Non c’è film, documentario, sceneggiatura in cui, nel corso di quasi trent’anni di lavoro, Wilma Labate sia venuta meno all’impegno di affrontare piccole e grandi storie, sempre e comunque scomode. Labate ha oltrepassato il portone del carcere di Airola insieme alla montatrice Annalisa Forgione “Ho aderito all’idea di Fuori le ali perché è molto vicina alle cose che faccio. E mi interessava poter stabilire un rapporto con il mondo doloroso e poco conosciuto dei detenuti giovanissimi”. La regista, ad Airola, porta con sé Domenica, girato nel 2001. Una scelta ragionata e precisa “È un film ambientato a Napoli, protagonista una bambina che mai aveva fatto l’attrice. È la storia di una dodicenne orfana, chiamata a riconoscere il cadavere del suo violentatore. Mi avevano avvertita che la proiezione non sarebbe stata semplice. In genere, dopo un po’, i partecipanti si annoiavano, uscivano a fumare, cominciavano a chiacchierare. Per cui ero pronta a far vedere un paio di minuti, interrompere e parlare con loro. Così ho fatto. E invece, dalla platea, ‘Veramente vorremo vedere il film. Faccene vedere un altro po’. Questo è successo di quarto d’ora in quarto d’ora, Li guardavo, chiedevo ‘Interrompo?’, e loro ‘No’. Così siamo arrivati alla fine. Il dibattito, permettimi di usare un termine assolutamente fuori moda, è durato un paio d’ore. I ragazzi erano attirati dal fatto che il film fosse girato a Napoli, ma soprattutto, credo, si erano in parte identificati con la protagonista della storia”. Negli interlocutori, la regista scopre una grande vitalità, non trova alcuna traccia di apatia e di pigrizia. Le domandano come si fa il cinema e dei suoi mestieri, come ha trovato l’attrice e scelto i luoghi dove girare. Avverte forte il coinvolgimento. Domenica ha spinto qualcuno a raccontare qualcosa di sé? “Lo hanno fatto, ma tra i denti. Per esempio mi chiedevano se, dopo il film, la bambina era riuscita ad avere successo, quanto e se il film le avesse cambiato la vita. Uno di loro è venuto da me e mi ha detto ‘Io temo che questo film non sia andato tanto bene. A chi glie ne frega di una che è orfana e vive per la strada?’ E un altro, ‘In fondo anche noi siamo così’”. Da Partigiani a Prima che la notte. E in mezzo Uomini e lupi, Velocità massima, Il passato è una terra straniera, Diaz... Non c’è documentario corto, film, in cui, nel corso di vent’anni di lavoro, Daniele Vicari sia venuto meno all’impegno di affrontare piccole e grandi storie, sempre e comunque scomode. Vicari ha oltrepassato il portone del carcere di Airola guardando al progetto di Fuori le ali nel ruolo di direttore artistico della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté. Cinema e carcere. È uno stimolo che secondo lei ha funzionato? “Assolutamente. Ho avuto con il carcere un lungo rapporto, poco più che ventenne facevo attività a Rebibbia e il servizio civile l’ho svolto in una struttura che si occupava di detenuti. Nello specifico, vedere un film e poterne discutere, fino alla possibilità di praticare il cinema, fa sentire questa forma d’arte molto vicina a tutti. Quando la si porta in un carcere, le persone improvvisamente si ‘accendono’, scoprendo ad esempio che si può imparare a fare un’inquadratura, e nell’inquadratura succedono delle cose che hai sempre visto ma non ti sei mai chiesto in che modo si arrivi a realizzarle. Ad Airola ho proiettato il backstage di Il passato è una terra straniera, in cui è molto ben visibile la macchina cinema, sono ben chiari i ruoli e le funzioni delle persone che ruotano intorno a una scena. È stato un modo per rompere la barriera nei confronti miei e di Gherardo Gozzi, il mio direttore della fotografia. Nelle sequenze del backstage, i ragazzi hanno visto che un film è qualcosa di pratico”. In mancanza di una macchina da presa, Vicari costruisce con un pezzo di cartone un inquadratore, e insieme ai ragazzi gioca a costruire l’immagine, che non è solo guardare un soggetto, ma anche muoversi fisicamente, avvicinandosi e allontanandosi. “Aver fatto cadere un piccolo mistero ha dato loro uno strumento per comprendere che inquadrare è una scelta analoga a quella di parlare; ha sciolto il rapporto grazie all’aspetto ludico, capace di azzerare le distanze. Il nostro obbiettivo come Fuori le ali è di sperimentarci nell’insegnamento all’interno di questi luoghi reclusivi, e in futuro di riuscire a sviluppare programmi specifici. Il fatto che qui il cinema possa venir concepito in quanto lavoro è un passaggio fondamentale. Il cinema non ti riguarda solo in quanto spettatore, ti riguarda perché domani potrebbe essere il tuo lavoro”.

INTERVISTA AL MAGISTRATO GIACOMO EBNER

ROMA Giacomo Ebner, il magistrato addetto al Dipartimento di giustizia minorile di comunità, che su incarico del Ministero coordina il progetto, chiama quelli di Fuori le ali ‘i sognatori’. Da una parte, dice, ci sono loro, con la volontà di fare, le idee, l’entusiasmo e, appunto, i sogni. Dall’altra, la dimensione carceraria e tutti i problemi, gli ostacoli burocratici, i limiti che pone. «A Roma si era partiti con tante iniziative, tanti film e il coinvolgimento di tantissimi ragazzi, ma è stato necessario ridurre tempi e numeri. I minori, in carcere ci stanno poco, due o tre mesi al massimo, in attesa di trovare collocazioni alternative. I detenuti dai diciotto ai venticinque anni, che hanno commesso reati quando erano ancora minori, scontano periodi più lunghi. E dunque per loro è stato possibile mettere a punto un programma di maggior respiro». L’idea di Fuori le ali, lei l’ha conosciuta stando dal lato opposto della scrivania, facendola sua ben oltre i compiti che ufficialmente le sarebbero spettati «Mi sono sentito subito coinvolto, quindi ho messo a disposizione le mie competenze per risolvere i problemi e dare un contributo di carattere tecnico, visto che faccio educazione alla legalità». In precedenza, ha definito sognatori gli artisti e i tecnici di Fuori le ali. Il rapper Lucariello, che lavora con il carcere di Airola usando come tramite la musica, sostiene che ogni progetto, lì e in realtà analoghe, è un granello di sabbia nel deserto. Anche Fuori le ali è un semplice granello? «Premetto che io sono sempre stato dalla parte dei sognatori. Tanto più adesso che ho raggiunto una certa età. Se a cinquanta, sessant’anni, non si ha più voglia di cambiare il mondo almeno un po’, inevitabilmente si finisce con l’impoverirsi. Aggiungo, usando a mia volta una metafora, quella della goccia nell’Oceano: le gocce cominciano a essere tante e quindi ad avere una portata maggiore di quella singola. Nel carcere, poi, la goccia è pioggia, perché se fuori c’è molto spazio e poco tempo, ‘dentro’ c’è poco spazio e molto tempo. Allora ciò che entra, che si riesce a fare, amplifica tutto, specie in situazioni che hanno risvolti concreti nel sociale, nel futuro dei ragazzi». Per quanto coinvolto, lei rimane un osservatore in qualche modo esterno. Come legge, allora, l’atteggiamento dei giovani di fronte a un’iniziativa, sì di carattere culturale, ma finalizzata ancor di più a prospettare la possibilità di fare del cinema un mestiere? «Sono iniziative che stimolano la curiosità, in quanto completamente estranee al vissuto di coloro cui vengono proposte. Mostrare il cinema nel suo aspetto onirico, e poi andare dietro le quinte, raccontare la costruzione di un film, crea un coinvolgimento notevole. Posso affermare di aver sentito circolare una buona dose di passione». In ultimo: viene il dubbio che la distanza tra chi entra in carcere portando anche il migliore dei progetti e chi ci vive, rimanga incolmabile «Il rischio c’è, esiste sempre, nell’incontro tra due mondi opposti. Di sicuro, chi va lì ha tanto da imparare quanto chi lo accoglie. I passi in avanti devono essere reciproci. Ma i ragazzi hanno voglia di cose belle, e se capiscono che a proporle sono persone di cui si possono fidare, le distanze riescono ad assottigliarsi. È questo che bisogna fare».