Sotto al cielo finalmente scuro di pioggia, col piacere di un piccolo sussulto di fresco, Locarno, la cittadina, cambia all’improvviso: famiglie disorientate, ragazzini e carrozzini, si aggirano coperti di plastiche sperando nel sole di ferragosto. Lo schermo gigante in piazza invece appare solido col suo fondale di montagne anche se quando la pioggia è troppa finisce che le migliaia di seggioline gialle rimangono vuote. Metamorfosi. È una delle suggestioni ricorrenti in molti film della selezione, Jacques Tourneur e la sua Cat People insegnano.

Che in Madame Hyde (concorso) si entri in una metamorfosi lo sappiamo sin dal titolo, citazione del romanzo di Stevenson con la variante della declinazione femminile, anche se per Serge Bozon, il regista, il riferimento per il suo film sembra essere più Jerry Lewis. Madame Hyde è la professoressa Gequil, insegnante di fisica con scarsa vocazione che in quel liceo di periferia viene messa ancora più in crisi. Lei ci prova a farsi ascoltare però i suoi allievi, ragazzi che vivono nella Cité 2000 di palazzoni e marginalità uguali in qualsiasi banlieue oggi, preferiscono il rap e la strada ai libri e la ignorano quando non la deridono. Il guaio è che nemmeno tra i suoi colleghi la povera Gequil è molto popolare, il preside, trombone quanto basta – Roman Duris molto divertente – fa fatica a nascondere commiserazione e disprezzo.

Con quei vestiti assurdi, le scarpette col tacco a metà e lo stomaco sempre chiuso dall’ansia che ignora i premurosi manicaretti del marito casalingo, il personaggio della prof trova corrispondenza perfetta in Isabelle Huppert, in una nuova sfumatura di follia repressa e assassina a cui riesce, come sempre, a dare le giuste tonalità. Poi succede che un giorno, mentre lavora nel suo laboratorio, oasi di pace contro il mondo, la donna viene colpita da una violentissima scarica elettrica, una «scossa» in senso figurato e letterale che la cambia radicalmente. Nel lavoro, nella vita, ma anche in quella sua frustrazione – una specie di Fantozzi d’oltralpe – che prende adesso il sopravvento in forma di vendetta. Dice il regista: «Se una cattiva insegnante diventa brava deve essere per forza accaduto qualcosa. Ma non tutte le trasformazioni sono naturali. Il personaggio del film non riesce a imporsi per trentacinque anni e all’improvviso conquista colleghi e alunni. Ci vuole un evento soprannaturale perché ciò avvenga. A partire da qui, abbiamo pensato insieme a Axelle Ropert, la cosceneggiatrice, che invece di realizzare un film di fantascienza potevamo affrontare le questioni legate al sistema scolastico rendendo la metamorfosi più sottocutanea».

Bozon, che è stato insegnante a sua volta e ha utilizzato nella narrazione le esperienze di amiche anche loro insegnanti, adatta dunque il mito letterario al presente, nell’inadeguatezza dell’Education nationale che sembra allargarsi in Francia – ma forse in tutta l’Europa – anche fuori dalle mura scolastiche. Di fronte ai ragazzi distanti da quelle aule che non «garantiscono» da molto tempo più nulla – «Lo avevo detto a mio figlio che per guadagnare non c’è bisogno del diploma» dice il padre di uno dei ragazzi – e dove non trovano risposte al precariato, alla rabbia, agli altri mutamenti sociali e di rapporto con il tempo ci sono risposte incapaci di guardare al nostro tempo. C’è un sistema, senza ovviamente generalizzare, privo di mezzi, energia, sulla difensiva, le cui pratiche appaiono scollate dal contemporaneo.

Sono anche gli interrogativi del cinema rispetto al racconto del proprio tempo che in chiave «fantasy» può assumere un’incidenza molto più netta.
Vale per le banlieue francesi e per il Brasile di As Boas Manieras dove la scommessa è ancora più ambiziosa: non solo l’oggi della sconfitta di un possibile cambiamento ma la storia del continente brasiliano riassunta in un incontro: quello tra una ricchissima giovane donna alla ricerca di una tata per il figlio che sta per nascere, e la ragazza che assumerà pure se priva di referenze. La prima è bianca, figlia del latifondo, di una famiglia di proprietari terrieri, la seconda è nera, discendenza africana, la schiavitù di ieri, la favela di oggi.                 

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Due solitudini, un possibile amore; Ana è stata diseredata per quel figlio nato dopo una notte d’amore con uno sconosciuto. Clara, la cameriera, è la sua unica amica e amante, qualcosa però è strano, Ana mangia molta carne e il bimbo nell’ecografia sembra il lupo di Cappuccetto rosso.
I due registi, Marco Dutra e Juliana Rojas, paulisti (nel senso nati a San Paolo) mescolano con precisione storia e immaginario, leggenda popolare e telenovelas per tracciare questa cartografia del Brasile popolata da licantropi crudeli – che si celano sotto alle spoglie di insospettabili sacerdoti – e di una impossibile «redenzione» – la mamma adottiva che cerca di salvare dalla sua natura il piccolo licantropo-bambino con dieta vegana e catene nelle notti di luna piena.

Dentro al «genere» – e nei corpi mutanti – affiora un sistema di classi secolarizzato (la chiesa in tempi di dittatura ne è stata il miglior garante), di devastazione del territorio foreste e quant’altro con l’allevamento della carne ossessione anche nutrizionale, di ricchezza immensa e di povertà condannata all’esclusione, l’impossibile incontro che sembrano invece sfidare le due protagoniste.
Molto, forse persino troppo, però con l’interesse dell’inventiva anche quando si sbaglia buttando via con irriverenza le «Buone Maniere» . E soprattutto senza pretendere di dare risposte: la metamorfosi dell’uomo lupo è forse impossibile, quella di una società ha bisogno di reti condivise.