Alan Bennett è un peso medio della satira, garbato ma sorprendente, sofisticato ma anche rustico, sfumato ma improvvisamente violento. Come ne Il vizio dell’Arte (Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 140, euro 12,00), tradotto da Mariagrazia Gini, con introduzione dell’autore. È stato detto di lui che non è mai come a prima vista appare, che le sue sottigliezze sono marinate sotto sale e aceto, e certi manierismi tipicamente inglesi – il perenne rossore, lo sguardo abbassato… – astutamente lavorati li usa per condire un buon racconto. Un altro critico ha aggiunto un aggettivo sospetto, «cantankerous», ‘attaccabrighe’, addirittura ‘perverso’ come nel Vizio dell’Arte, questo elastico play-within-the-play tirato fino ai limiti estremi, ingegnosa commedia al cubo, costruita attorno al teatro stesso e al suo continuo scivolamento nel caos della realtà di chi invece dovrebbe fissarlo nella sua aurea perfezione: attori, autori, registi, biografi, comparse, inservienti, amici e marchettari in visita… Al centro sta l’incontro bellicoso dei due grandi mostri, ormai decrepiti, Auden e Britten, omosessuali di stile differente, l’uno verso l’altro educatamente ostili. Scontro che si doppia in quello sotterraneo ma più effervescente tra lo stesso Bennett e Auden.
Immaginate Bruce Lee (il peso medio Bennett) e il roccioso Mike Tyson (Auden), la leggerezza e la velocità di una raffica di pugni contro la forza incalcolabile d’un pugno definitivo. Si comincia dall’introduzione dove Bennett avanza le sue giustificazioni. Benché non ami Britten per una certa mancanza di cuore, tuttavia trova sopportabile la sua innocente pratica di parcheggiare la lussuosa auto innanzi al Magdalen College, frequentato dal coro di voci bianche, i giovanissimi angeli che avevano affascinato anche Hopkins. Nel timido Britten, Bennett può identificarsi. Il suo outing ha tardato alquanto. Invece Auden era sempre stato arrogante, pedante, invadente, sporco, sboccato – secondo lui. E adesso che ha tra le mani il «vecchio frocio sozzone» – nelle parole della colf –, decorato a Oxford del titolo di professore di poesia, ossia «professore di piazzamento dell’uccello in bocca al prossimo» – nelle parole del domestico amico della colf – Bennett non si trattiene più. «Adesso era insopportabile e basta… Nel 1973 la sua morte mi sembrò più un lutto per la cultura che non per la poesia; la poesia era già finita da un pezzo».
La censura teatrale era stata abolita in Inghilterra nel 1968 ed era scomparsa la tensione tra quello che si poteva fare e dire e quello che non era permesso. Aboliti i limiti, può entrare in scena STUART, il marchettaro convocato da AUDEN, poi rifiutato perché in ritardo di qualche minuto, passato a BRITTEN, ma non accettato né nudo né vestito. Gli attori stanno provando e parlano a volte come i personaggi che interpretano ma a volte fanno anche commenti, osservazioni, domande. «AUTORE Questa non è una commedia sui pompini. FITZ (l’attore che interpreta Auden, ndr) Qui tendo a concordare. E per quanto mi riguarda, l’ultima cosa che desidero è vedere tutte le sere i genitali fiacchi – ma certamente non brutti – di Timothy. TIM (che fa Stuart) Su quello potrei intervenire. Mi riferisco al fiacco». Il povero STUART protesta perché rimane misconosciuto il contributo che danno all’Arte, lui e i professionisti come lui: «Ragazze senza nome, ragazzi innominabili, storielle, prestazioni. Il companatico dell’Arte». CARPENTER (impersonato da Donald) lo rimbecca. «Quindi lei a cosa aspira? A una menzione? A una nota a piè di pagina?». In STUART c’è qualcosa anche del giovane Bennett in visita accademica dai suoi professori. «Per certi aspetti il senso di inadeguatezza che Stuart prova nelle case dei suoi clienti riflette il mio stupore di studente quando andavo ai seminari nelle grandi case vittoriane di North Oxford. Il mio scopo era diverso e più lecito di quello di Stuart, ma vedere una parete interamente coperta di libri era di per sé istruzione, tanto visiva ed estetica quanto intellettuale. I libri arredano veramente una stanza, e alcune di quelle stanze contenevano poco altro se non il professore, in un angolo, sotto una lampada».
Ormai il palcoscenico si è riempito di doppi: attori che dicono la loro e personaggi obbligati a dire quanto deciso dall’onnipotente autore, ma anche sedie, specchi, rughe ecc… L’importantissimo Humphrey Carpenter, biografo sia di Auden che di Britten, è messo lì con il compito di dire quel che ai personaggi non riesce. Solo lui può onestamente evitare un noioso antefatto o un esercito di note a piè di pagina. Appena entra in scena la prima volta è interpellato bruscamente da AUDEN che è in attesa del suo marchettaro. «AUDEN Bene. Si tolga i pantaloni. CARPENTER Ma perché? AUDEN Secondo lei? Forza, è già la mezza. CARPENTER Che cosa mi sta proponendo di fare? AUDEN Non le propongo un bel niente. Lei è pagato. Questa è una transazione. Io glielo succhio. CARPENTER Ma io sono qui per la BBC! AUDEN Davvero? Be’, buon per lei. Idealmente mi sarebbe piaciuto più un figlio della terra, ma tutto fa brodo. A New York avevo un marchettaro che lavorava alla Pierpont Morgan Library». È il nuovo Stile Tardo di Bennett che avanza, nutrito anche dal suo antico rancore antiaccademico. «Quando ho infilato il mio primo pompino in The History Boys non ero certo di averne il coraggio. Ho conquistato la libertà dei vecchi, questo deve essere il mio Stile Tardo» – ha confidato in una recente intervista al «venerdì» di Repubblica. Qualche frecciata tocca anche all’amico Nicholas Hytner, con il quale Bennett ha condiviso il successo del precedente lavoro, appunto The History Boys, altre quattro commedie e due film, introdotto qui come il REGISTA che critica e osa correggere l’AUTORE. Dovrà sopportare che Bennett metta nel testo le frasi più ustionanti della loro disputa. Ci ritroviamo così, ben lungi dalla grazia della Sovrana Lettrice, in un chiassoso metadramma che gioca spavaldamente su tutto e su tutti. Finché l’ombra del Bardo invade la scena – che comunque è già fitta di riferimenti a intellettuali, a luoghi, a pratiche inglesi – e impone l’imitazione, ma sarebbe meglio dire l’eco, di Bottom e dei suoi amici che nel bosco fanno le prove della loro «farsa molto tragica» dei due amanti Piramo e Tisbe.
Gli artigiani di Shakespeare non credono affatto alla magia del teatro. Nel Sogno MURO, CHIARDILUNA, LEONE vanno mostrati e spiegati, uno per uno, a scanso di equivoci. «Quest’uomo impiastrato di calce e intonaco è il Muro, il vile Muro… Quest’uomo con la lanterna, il cane e la fascina rappresenta il Chiardiluna… La belva feroce che Leone è nomata… – avverte il Prologo che è anche il regista. Così SPECCHIO, SEDIA, LETTO, PORTA, OROLOGIO avanzano sul proscenio a dir la loro, e in versi rimati (tradotti molto bene) nel momento clou in cui il nostro eroe AUDEN, attende l’oggetto del suo desiderio, STUART. SPECCHIO è il più eloquente avendo a che fare direttamente con la famosa faccia cavernosa di Auden. «Spaccata da crepacci, gualcita, solcata come l’arenaria… SEDIA Io sono la sedia… Quanto ambisco a rivedere chiappe di mondo, colte e austere. LETTO Io sono ciò che lui non divide: il letto. Accade altrove sotto il suo tetto…» e via di seguito. Finché non arrivano RUGA1, RUGA2, PAROLE (di Auden) e MUSICA (di Britten). Qui il gioco si fa surreale. Ma Bennett ha qualche piccola cosa in comune con il grande Bardo. Lui sta a Leeds, dove è nato e ama tornare, come Shakespeare sta a Stratford, due artigiani, anche se di disuguale statura, due provinciali, campioni della Merry England.