Messico: proteste contro gli omicidi del fotoreporter e di quattro donne
Città del Messico Manifestazioni in tutto il paese contro l'omicidio del giornalista e di quattro donne. Tre erano attiviste, una lavorava in una maquiladora. Migliaia i cadaveri e le persone scomparse sotto la presidenza Nieto
Città del Messico Manifestazioni in tutto il paese contro l'omicidio del giornalista e di quattro donne. Tre erano attiviste, una lavorava in una maquiladora. Migliaia i cadaveri e le persone scomparse sotto la presidenza Nieto
Che il Messico sia un paese ad altissimo rischio per chi denuncia o combatte il narco-stato che lo governa, è documentato dal numero dei morti e degli scomparsi: secondo cifre ufficiali, circa 25.700 persone risultano desaparecidas negli ultimi anni, in maggioranza durante l’amministrazione del presidente neoliberista Enrique Peña Nieto, iniziata nel 2012.
Il brutale assassinio del fotoreporter Rubén Espinosa Becerril e di quattro donne che si trovavano con lui a Città del Messico sta però scuotendo il paese. I cinque sono stati torturati e infine uccisi con un colpo alla testa. I corpi delle donne – attiviste e una domestica diciottenne – presentavano anche segni di violenza sessuale.
Al grido di “Adesso basta impunità” si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il paese. Attivisti e giornalisti sfilano con l’immagine del collega ucciso sovrapponendola al proprio viso. Dal 2000 a oggi sono stati assassinati 88 giornalisti. Con l’uccisione di Espinosa sale a 13 il numero di giornalisti eliminati nello stato di Veracruz – uno dei più pericolosi del paese -, governato da Javier Duarte.
E tre risultano scomparsi. Il 2 luglio è stato scoperto il corpo di Juan Mendoza Delgado, direttore e fondatore del sito web di notizie da Veracruz, Escribiendo la Verdad. A Xalapa, nello stato di Veracruz, il fotoreporter aveva lavorato per 8 anni, soprattutto per la rivista Proceso, in prima fila nel sostegno alle proteste sociali e sede di inchieste scomode per il potere.
Lo stato di Veracruz sintetizza la crisi che attanaglia il paese, resa drammaticamente visibile dal problema dell’insicurezza. A Veracruz imperversa la lotta dei cartelli per il controllo delle vie del narcotraffico e quella per il controllo del traffico dei migranti. Le aggressioni ai giornalisti sono quotidiane. Anche il giornale El Heraldo de Córdoba è stato attaccato con bombe incendiarie.
Per la sua attività, Espinosa aveva ricevuto ripetute minacce e si era rifugiato nella capitale, Città del Messico. Sabato, poiché risultava irreperibile, il gruppo di difesa della libertà di espressione Articolo 19 aveva chiesto alle autorità messicane di attivare il protocollo per localizzarlo. E così si è scoperto il corpo e quello delle altre quattro vittime nel Narvarte, un quartiere di classe media della capitale.
Espinosa aveva iniziato a lavorare come fotografo di Javier Duarte quando questi era candidato a governatore del Veracruz. In seguito aveva però smesso di lavorare per le istituzioni pubbliche, rendendo sempre più visibile il suo impegno nella denuncia della violenza di stato contro i giornalisti. Scelse di documentare l’attività dei movimenti sociali. Nel novembre del 2012, mentre seguiva le proteste degli studenti contro il governatore Duarte per l’omicidio di un’altra corrispondente della rivista Proceso nel Veracruz, Regina Martinez, gli venne impedito di scattare le foto del pestaggio a uno studente da parte della polizia.
Una persona gli si avvicinò e gli disse “Smetti di scattare foto sennò finisci come Regina”. Ruben però non smise di partecipare alle manifestazioni e di documentarle. Il 14 settembre del 2013, mentre fotografava il violento sgombero a un presidio di maestri e studenti universitari, a Xalapa, venne brutalmente aggredito insieme ad altri giornalisti, e gli fu sequestrato il materiale.
Presentò numerose denunce, ma intanto era diventato sempre più scomodo per il governatore Duarte, che arrivò a comprare tutte le copie della rivista Proceso per una copertina di Espinosa, a lui sgradita.
Nel giugno scorso, alla vigilia delle elezioni, documentò l’aggressione subita da otto studenti che furono aggrediti da un gruppo di incappucciati, probabilmente legati alla Sicurezza pubblica. Da allora cominciò ad accorgersi di essere seguito e il 9 giugno, dopo aver nuovamente denunciato la persecuzione di cui era vittima, fuggì nella capitale. Inutilmente.
Intanto, in una delle 60 fosse comuni clandestine, rinvenute nel comune di Iguala, sono stati scoperti i cadaveri di 20 donne e 109 uomini. A Iguala, il 26 settembre dell’anno scorso, sono scomparsi i 43 studenti normalistas, a seguito di una feroce aggressione congiunta di polizia locale e narcotrafficanti. La loro ricerca, che continua grazie alla costante mobilitazione di famigliari e organizzazioni popolari, ha riportato all’attenzione del mondo l’entità del fenomeno delle scomparse, la responsabilità e le inadempienze del sistema politico che stritola il paese. Secondo le autorità del Guerrero (lo stato dove si trova Iguala), i cadaveri rinvenuti non sono quelli degli studenti della Normal Rural di Ayotzinapa. Attivisti e famigliari dei normalistas continuano però a denunciare pressioni e intimidazioni da parte delle autorità, e chiedono che si cerchi nelle caserme militari, ove – secondo testimonianze – esistono prigioni clandestine e luoghi di tortura.
Secondo Felipe de la Cruz, portavoce del comitato dei famigliari dei 43, le autorità messicane hanno offerto un risarcimento di oltre un milione di pesos (62 milioni di dollari) affinché cessino le ricerche.
La proposta è però stata rispedita al mittente: “La vita dei nostri figli non ha prezzo”, hanno risposto i famigliari. E le manifestazioni continuano. Contro le privatizzazioni di Nieto, che sta svendendo il paese alle grandi multinazionali si stanno mobilitando tutte le categorie. In prima fila, studenti e professori, vittime dei piani neoliberisti sulla scuola pubblica. In marcia anche infermieri, lavoratori e pensionati dell’Instituto Mexicano del Seguro Social. Pur sommerso dagli scandali che lo chiamano in causa anche a livello personale, Pena Nieto – ben sostenuto dai suoi padrini nordamericani – resta però aggrappato al potere.
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