Se «dicembre decima i poeti» – come scrive Davide Brullo su Pangea ricordando la morte di Osip e Nadezda Mandel’štam – gennaio colpisce al cuore i musicisti. Nel calendario storico del primo mese dell’anno, infatti, sono inscritte due date che chiamano i compositori, gli interpreti, gli storici della musica, gli organizzatori a una vera e propria «battaglia della memoria». La prima è il 15 gennaio del 1941, l’anniversario della nascita, a Görlitz, del Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen.

La seconda è il 27 gennaio del 1945 che per tutti, almeno da quando il ricordo della liberazione di Auschwitz si è cristallizzato in una moderna legge dello stato, coincide con il cosiddetto «Giorno della Memoria». Tra i due eventi non esiste ovviamente alcuna relazione storica, se non il fatto di ricadere, entrambi, entro l’arco temporale della Seconda Guerra Mondiale. Lo Stalag VIII-A di Görlitz non era un ghetto, né un campo di concentramento, né un campo di sterminio, bensì un campo di prigionia realizzato dall’esercito tedesco per rinchiudere i prigionieri di guerra francesi, polacchi, belgi, sovietici, italiani. Nulla a che fare dunque con la Shoah.

E forse proprio per questo i quattro musicisti che quel giorno creano, sotto le loro dita irrigidite dal gelo, il capolavoro del Quatuor riescono ad affermare, attraverso la musica, il proprio diritto di esistere. Ad Auschwitz, al contrario, ogni principio di identità ed esistenza è sepolto sotto cataste di cadaveri: Birkenau, un anno e mezzo prima della liberazione, il 17 ottobre del 1944, è il teatro del più sanguinoso pogrom di artisti e musicisti della storia occidentale: in un solo giorno passano su per i camini 1390 compositori, cantanti, musicisti, poeti, scrittori, pittori partiti il giorno precedente, a bordo del cosiddetto kunsltertransport, dal ghetto di Terezin. È inevitabile dunque che ancora oggi alla musica si chieda di ricordare, evocare, salvare dall’oblio, tenere vive nella memoria, pur nella loro irriducibile diversità, queste due date cruciali. Facendo retoricamente appello alla rituale funzione mnestica, celebrativa, cerimoniale che la musica d’arte in Occidente ha sempre incarnato. Intorno alla data cuspide del 27 gennaio si moltiplicano (relativamente) le esecuzioni del Quatuor, vivono effimeri momenti di gloria le musiche dei compositori di Terezin (Ullmann, Haas, Kràsa), tornano sulla scena alcuni dei classici della «musica di guerra» come Un sopravvissuto di Varsavia di Schönberg o la Settima Sinfonia di Shostakovich.

Una prassi lodevole che contiene però, nel proprio codice genetico, un rischio mortale: quello di monumentalizzare la memoria, di renderla un oggetto di contemplazione, di creare un ghetto nel ghetto, di spegnere insomma la lava bollente della storia nel marmo della commemorazione. È un vicolo cieco, un cul de sac dal quale non si può uscire? Elena Loewenthal, in un polemico pamphlet uscito nel 2014, rinnega il Giorno della Memoria, lo allontana da sé, e invoca, al contrario, il Giorno dell’Oblio, il diritto di dimenticare.

Forse, però, esiste un’altra strada, un antidoto al silenzio che consenta al passato – come ha scritto di recente Francesco Cataluccio richiamando il «principio speranza» di Ernst Bloch – di irrompere nel presente conservando tutta la sua potenza. La strada è quella racchiusa nel verbo blochiano eingedenken, che non significa tanto ricordare, bensì «essere memori», declinare la memoria al tempo presente, farne un soggetto vivo, pulsante, portatore di conflitti. Un principio «rivoluzionario» capace di scardinare anche la mera funzione celebrativa che oggi si assegna stancamente alla musica. Perché impone, ad esempio, di far rinascere il Quatuor tutti i giorni dell’anno, di portare fuori dal ghetto i musicisti di Terezin, evitando loro una nuova deportazione, ma soprattutto chiede di convocare i musicisti di oggi, non quelli di ieri, a dire la loro parola, ad affermare la loro memoria. E a far irrompere il suono nuovo nella liturgia del passato.