Ne sentivamo davvero il bisogno. Per anni siamo rimasti in attesa di un messia che ci spiegasse con parole calme e chiare che cosa significa essere genitori, figli e studenti, che ci illuminasse la strada giusta da percorrere, che ci fornisse una cassetta di manutenzione delle relazioni, che ci dicesse dove e perché sbagliamo, che, insomma, mettesse ognuno di questi ruoli, e quindi noi, in categorie pronte all’uso, prêt-à-porter.

E adesso il messia è arrivato, incarnato nello psicoanalista più popolare d’Italia, quel Massimo Recalcati che per quattro puntate, trasmesse il lunedì sera su Rai tre dopo Report, ha condotto Lessico famigliare suddiviso in quattro stazioni dedicate a La madre, Il Padre, I figli, La scuola.

La prima puntata, quella sulla madre, l’ho vista per caso, mentre stavo chiudendo il buco a un calzino di mio figlio e perché la televisione era rimasta sintonizzata su Report.

Erano da poco trascorse le 23, e già questo la dice lunga sui mille mestieri e dilatazioni temporali a cui una donna/madre/lavoratrice free lance deve adattarsi.

Stavo litigando con il filo che non voleva entrare nella cruna dell’ago (come sapete con l’età la vista cede), quando con la coda dell’occhio vedo apparire in uno studio con luci soffuse, e davanti a uno schermo, il messia di nero vestito.

Sotto la giacca portava una triste felpina girocollo e troppo remboursée in vita che, anziché dargli slancio, lo ingoffava.

Ora, se vai in televisione, sei da solo sulla scena e ti siedi su un trespolo, curare le pieghe degli abiti e la postura (messia Massimo tende a curvare le spalle) è un must che anche il più principiante dei narcisisti dovrebbe conoscere, sennò l’aura si appanna.

Ho lasciato perdere per un attimo il calzino e ho osservato il pubblico.

Era adorante e in estasi, proprio come davanti a un predicatore da cui sugge il Verbo, e lì il mio innato senso di ribellione ha cominciato ad agitarsi, ma è di sicuro colpa mia che da sempre sono allergica ai guru e ai seguaci.

Messia Massimo andava avanti a spiegare che cos’è una madre e non riuscivo a trovare nulla che già non sapessi, o avessi intuito e sperimentato, da una parte facendo l’ingrato e straordinario mestiere di genitrice, dall’altra conoscendo l’argomento dalla prospettiva di figlia.

Se è vero che ci sono madri buone e cattive, che sbagliano poco o tanto, amorevoli o distratte, soffocanti o indifferenti, se è poi vero che maternità non vuol dire solo partorire ma anche crescere, una certezza l’ho maturata, e cioè che l’essere madre non è categorizzabile in modo schematico, perché ogni storia è unica, ogni esperienza è al centro, e al seguito, di altre esperienze, come in una rete che è anche gioco del domino.

Se ognuno di noi è un continuum e un divenire, applicargli delle categorie vuol dire ingabbiarlo e forse è per questo che, più messia Massimo parlava, più mi veniva da dire Ma parla per te.

Verso la fine della trasmissione sono arrivate le domande del pubblico e relative risposte alla fine delle quali si accendeva un applauso.

Lì mi ha preso un senso di disagio ancora più forte.

Proprio perché ignorante della pratica, vorrei chiedere a coloro che per anni si sono stesi sul lettino di un analista se, alla fine della seduta, lo hanno mai applaudito tipo Bravo, bene, bis.

Neanche in chiesa a nessuno è mai venuto in mente di applaudire il prete dopo la predica. Tutt’al più si china il capo, si riflette o si prega.

Ho finito di chiudere il buco del calzino di mio figlio e sono andata a dormire pensando che la cosa più utile che avevo fatto, dalle 23 in poi, era stata rammendare.

mariangela.mianiti@gmail.com