Tempesta passata, crisi derubricata alla richiesta di un «rimpastino» con la testa del ministro Danilo Toninelli come offerta di pace a Matteo Salvini? Sino a metà pomeriggio sembra che sia proprio così, poi, a sorpresa, è il premier Giuseppe Conte a riaprire le ostilità dimostrando che la partita non è affatto chiusa.

QUANDO IERI MATTINA un Luigi Di Maio palesemente sollevato ha «escluso che possa esserci una crisi» invitando Salvini a un colloquio all’insegna della riconciliazione, la tempesta era già finita. Tutto pareva risolto quando a notte Salvini, poche ore dopo aver affermato che era «venuta meno la fiducia anche personale» nel socio, era slittato sulla posizione opposta: «Lui è una brava persona ma alcuni dei suoi ministri non sono all’altezza». Nomi non ne aveva fatti. Ha provveduto ieri. In testa alla lista nera c’è Toninelli, che proprio giovedì ha bloccato il progetto della Gronda a Genova. Al secondo posto la ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Poi, non citati, Giulia Grillo, Sergio Costa, Alfonso Bonafede.

Per quanto al Quirinale neghino, pare evidente che a determinare la sterzata brusca di Salvini sia stato l’incontro tra il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, che certo non era salito al Colle solo per comunicare il suo forfait nella corsa per il commissario europeo, e il presidente. Sergio Mattarella ha probabilmente fatto capire al leghista che una crisi oggi non sarebbe affatto una passeggiata per il Carroccio e tanto meno una corsa in discesa verso le elezioni anticipate. Bisognerebbe spiegare in Parlamento una rottura con la legge di bilancio dietro l’angolo. Non si può escludere l’improvvisa comparsa di una maggioranza alternativa che oggi sembra, ma non è detto che sia, inesistente. Alla fine la Lega stessa potrebbe ritrovarsi ad affrontare la campagna elettorale, chissà quando, con un’immagine devastata.

Sia o no merito di Mattarella, sta di fatto che ieri mattina, forse dopo una telefonata come di prammatica smentita tra i due vicepremier, i venti di guerra sembravano fugati. Salvini insiste per il rimpasto. Di Maio sembra accettare. Il leghista, dopo aver ripetuto che «a colpi di no non si può andare avanti», tira fuori senza più limitarsi alle allusioni i nomi dei ministri da depennare.

L’ARMONIA CROLLA quando nel pomeriggio si riuniscono il consiglio dei ministri e il vertice sulle autonomie. La posizione di Conte è tanto dura quanto quella di Di Maio è accondiscendente. Sulle autonomie il premier chiude la partita d’autorità. Ha ragione Di Maio. L’articolo 12, quello sulla chiamata regionale dei docenti, è fuori discussione. Nel comunicato Conte inserisce una stilettata, ringraziando i presenti e «gli assenti ingiustificati», tra i quali non figura il ministro degli Interni. Poi, in conferenza stampa, nega il rimpasto: «Sono soddisfatto di tutta la mia squadra. Nessuno mi ha chiesto un rimpasto». Il capogruppo leghista Massimiliano Romeo esplode: «Siamo esterrefatti per la soddisfazione di Conte». Il governatore del Veneto Luca Zaia è furibondo: «La misura è colma». Quello della Lombardia Attilio Fontana la pensa allo stesso modo: «Se queste sono le premesse non firmerò l’intesa». I 5S arrivano di rincalzo al premier: «Pieno sostegno a Toninelli e Trenta».

DI MAIO E CONTE giocano in realtà partite diverse. Per il primo si tratta solo di evitare le elezioni. Conte però è più ambizioso. La brillante manovra ai danni della Lega con la quale ha portato i pentastellati non solo nella maggioranza di Strasburgo ma nel mainstream europeo lo ha reso un soggetto molto forte della politica italiana, in pole position per succedere a se stesso quando la crisi arriverà, come prima o poi è inevitabile. Dunque è obbligato a fronteggiare l’impeto e gli appetiti del leghista sia per mantenere le redini del governo, dimostrando di essere un premier a pieno titolo, sia per quanto riguarda lo schieramento dell’Italia nel fronte europeo ed europeista, senza più margini di ambiguità. Il suo intervento di mercoledì prossimo nell’aula del Senato sul Russiagate è dunque potenzialmente deflagrante, anche se Salvini intende disinnescarlo prendendo anche lui la parola nella stessa occasione e nella stessa aula. Ma intanto si sommano tensioni, sul rimpasto, sulle autonomie, sulla grandi opere. Nonostante i tamburi di pace, il governo sarà fuori dalla crisi, se ci arriverà, solo alla fine della prossima settimana.