Resta in silenzio tutto il giorno. Poi, a sera, Di Maio gela l’ottimismo che si era diffuso nel governo dopo il rinvio strappato dal ministro Gualtieri nella lunga notte dell’Eurogruppo. È «un primo risultato», certo. Però «non si firma niente finché nei dettagli, e non nella road map, non sono chiare anche le altre due riforme, assicurazione sui depositi e unione bancaria». Se confermata, è una posizione che porta dritta alla rottura, non essendo la firma contestuale accettabile per l’Eurogruppo. Se poi il leader dei 5S insistesse per mettere quella posizione nero su bianco nella risoluzione di maggioranza, l’11 dicembre al Senato, l’esplosione sarebbe a effetto immediato.

Sino al pronunciamento di Di Maio aveva regnato un diffuso ottimismo a cui dava voce proprio Gualtieri: «Sono molto soddisfatto. Il negoziato è stato intenso ma l’Italia non ne è uscita isolata». Quanto al voto in aula, il ministro si dichiarava «fiducioso in una linea di maggioranza europeista». Il rinvio dell’accordo, non più fissato per la riunione del Consiglio europeo del 13 dicembre ma rimandato a gennaio, con successiva firma entro il primo trimestre del 2020, non modificava il testo del trattato, non rispondeva affatto alle richieste del M5S, ma offriva un appiglio a Di Maio per ritirarsi salvando la faccia ed era opinione comune che il pentastellato lo avrebbe colto.

Quel risultato era stato frutto di una sinergia di elementi. La consapevolezza di non poter offrire al leader che l’Eurogruppo considera il nemico principale, Matteo Salvini, una simile sponda da un lato. Ma dall’altro anche la divisione dell’Eurogruppo su alcuni particolari importanti e fondamentali per l’Italia. Il più importante è la riforma delle Cacs, le clausole di azione collettiva. In caso di possibile ristrutturazione del debito la riforma sostituisce il doppio voto, quello dei possessori di titoli e quello dei possessori di singole emissioni, con un unico voto e così facendo aumenta il rischio di ristrutturazione. Il ministro dell’Economia Gualtieri ha chiesto che a ogni Stato sia concesso un margine di discrezionalità consistente nel reintrodurre per alcune categorie di titoli il doppio voto ed è il vero elemento di modifica non puramente cosmetica che sia riuscito a portare a casa.

Più spinosa la seconda questione irrisolta. I tedeschi non recedono dalla richiesta di inserire a la «ponderazione» sui titoli di Stato. I titoli italiani sarebbero valutati diversamente da quelli tedeschi ma questa è la linea del Piave che secondo l’Italia non può essere superata. Gualtieri ha insistito. Il tedesco Scholz si è impuntato. Alla fine tutto è stato rinviato a giugno. Significa che al momento di approvare il trattato sul Mes non ci sarà probabilmente neppure quella road map che comunque a Di Maio non basterebbe.

A differenza di tutto il resto, lo scontro sul Mes implica davvero il rischio di crisi immediata. È significativo che lo scontro si sia allargato ieri addirittura all’eventualità di Italexit. La ha chiamata in causa il presidente leghista della commissione Bilancio della Camera Borghi, dagli studi di Agorà. Per Borghi la posizione favorevole all’uscita dall’euro deve essere rappresentata dal momento che è condivisa, a suo parere, «dal 25% degli italiani». E ha aggiunto che «quando eravamo al governo c’era un accordo per non parlarne, ma nessun argomento può essere tabù». In un momento simile parole come queste sono benzina sul fuoco. Gualtieri attacca: «Borghi e la Lega sono per l’uscita dall’euro. Si confermano nemici dell’Italia». Salvini prova inutilmente a porre riparo: «Nessuna uscita dall’euro. La Lega vuole solo fermare un governo che mette a rischio democrazia, sovranità e risparmi degli italiani». Ma il diluvio non è frenabile. Il Pd in una nota giura che «il sogno leghista si tradurrebbe in un bagno di sangue». Renzi si complimenta con se stesso per la mossa di agosto: «Tutte le volte che ho dubbi mi ricordo cosa rischiavamo».

Non è solo campagna politica. La capacità di mantenere buoni rapporti con l’Europa è la vera ragion d’essere di questo governo. Di Maio ha toccato l’unico filo elettrico scoperto e ad alto voltaggio. Il Pd si aspettava una retromarcia che per il futuro del governo è più importante di tutte le altre tensioni esistenti messe insieme. Ma che per ora non c’è stata.