A una quarantina di chilometri a sud-est di Kabul, nel distretto di Muhammad Agha, nella turbolenta provincia di Logar, c’è un patrimonio minerario che fa gola a molti. Si tratta del secondo più ampio giacimento di rame al mondo: qualcosa come 6 milioni di tonnellate di rame nascoste nel sottosuolo. Per arrivarci da Kabul, si percorre prima un tratto di strada asfaltato, trafficato e rumoroso come tante strade afghane. Poi si svolta a sinistra, per imboccare un ampio sentiero sterrato che si insinua per una quindicina di chilometri in un panorama desertico e asciutto, dove gli uomini sembrano aver conquistato a fatica il diritto di sopravvivere. Questi ultimi quindici chilometri sono costellati di checkpoint e di controlli: impossibile procedere senza un permesso rilasciato con molta riluttanza dal ministero per le Miniere, a meno che non si viaggi nell’auto di qualcuno ben conosciuto dalle forze di sicurezza che presidiano l’intero tratto di strada. La zona è diventata una delle più protette del paese, quasi più del quartiere delle ambasciate di Kabul, dalla fine del 2007. Da quando cioè il governo afghano ha siglato un accordo con il consorzio China Metallurgical Group, di proprietà statale, e con l’azienda privata Jiangxi Copper Company Limited: 3 miliardi di dollari in cambio del diritto esclusivo per trent’anni di estrarre il rame di Mes Aynak.
Le ragioni di tanta preoccupazione sono evidenti: l’economia dell’Afghanistan dipende per un buon 90% dagli aiuti esterni, e il governo considera il settore minerario una risorsa fondamentale per guadagnare maggiore indipendenza finanziaria in futuro. Ciò vale soprattutto ora, con il ritiro dei soldati stranieri alle porte, che produrrò una fisiologica riduzione degli aiuti allo sviluppo, come già avvenuto altrove in passato. Per questo, grazie ai soldi delle compagnie cinesi, il governo afghano ha tutto l’interesse nel proteggere il giacimento di rame di Mes Aynak. Secondo quanto recita un documento del ministero delle Miniere si tratta del «secondo più importante progetto privato nella storia afghana, capace di generare nuovi posti di lavoro, nuove entrate, così come di migliorare le infrastrutture del paese più di ogni altro singolo progetto approvato finora» (http://mom.gov.af/en/page/8150). Il contratto prevede infatti che i cinesi costruiscano una centrale elettrica che dovrebbe soddisfare parte del fabbisogno energetico di Kabul; una ferrovia che una volta terminata potrebbe estendersi dalla Cina al Tajikistan; un ospedale e una moschea, oltre all’assunzione di manovalanza locale. Secondo la Banca mondiale, che negli ultimi anni insieme al Fondo monetario internazionale si è spesa molto, con successo, affinché il governo afghano aprisse il settore minerario agli investimenti privati, «una previsione prudente, basata sulle condizioni attuali del mercato, stima che Aynak creerà 4.500 nuovi posti di lavoro diretti, 7.600 indiretti e 62.500 nell’indotto, oltre che circa 250 milioni di entrate annuali una volta che si arriverà alla prevista capacità estrattiva di 250.000 tonnellate annuali di rame» (http://www.worldbank.org/en/news/feature/2013/04/02/qa-aynak-mining-afghanistan).
A Mes Aynak, il consorzio cinese sborsa i soldi, il governo afghano recluta le forze di sicurezza per proteggere la miniera di rame e garantire i profitti. Tutti sembrano soddisfatti dell’accordo trovato, a dispetto della scarsa trasparenza del contratto, contestata da alcune organizzazioni non governative afghane come Integrity Watch e dal network internazionale con base a Londra Global Witness, che nel novembre 2012 ha reso pubblico il rapporto «Copper Bottomed», con 95 raccomandazioni per il governo e 39 per la comunità dei donatori.
Il sito a rischio
Eppure nel paese c’è chi non condivide lo stesso entusiasmo del governo e degli investitori cinesi. Proprio sotto la miniera di rame è custodito infatti uno straordinario complesso di monasteri buddhisti e altri reperti archeologici che rischiano di andare distrutti a causa delle estrazioni minerarie. Superata la sfilza di casette prefabbricate costruite dalle compagnie minerarie per ospitare i minatori cinesi, proseguendo lungo la strada sterrata che si inerpica verso l’alto costeggiando i fianchi sinuosi delle colline, si arriva infatti a un sito archeologico incredibilmente ampio. Il sito si estende «per circa un chilometro e mezzo di lunghezza e un chilometro e mezzo di larghezza, allungandosi per circa mille ettari intorno alla montagna di Baba Wali, sotto la quale c’è la miniera», scrive Nicolas Engel, un archeologo che lavora per la missione archeologica francese (Dafa), in New Excavations in Afghanistan: Mes Aynak, un saggio pubblicato in occasione della mostra Mes Aynak – Recent Discoveries Along the Silk Road, inaugurata nel 2011 al Museo nazionale di Kabul. Il sito archeologico è stato esplorato per la prima volta in modo approssimativo nel 1963, ma gli scavi ufficiali, condotti dall’Istituto nazionale afghano di archeologia, sono ricominciati soltanto nel 2009, dopo la lunga parentesi di conflitti che ha attraversato il paese. Solo allora è stato possibile identificare i resti di Mes Aynak come appartenenti a un arco temporale che va dal tardo periodo del regno Kushan fino a quello Shahi, dal II al IX secolo dopo Cristo, anche se non mancano testimonianze risalenti al III secolo prima di Cristo. Oggi, a distanza di qualche anno dall’inizio degli scavi, sono stati individuati una ventina di differenti siti archeologici, quattro monasteri fortificati, un tempio zoroastriano, diverse stupa buddhiste di diversa grandezza (monumenti adibiti alla conservazione delle reliquie), un migliaio di statue di argilla, centinaia di affreschi raffiguranti la vita del Buddha, una cittadella, un paio di forti, e molto altro ancora.
I primi scavi
«Come Istituto nazionale di archeologia abbiamo cominciato a scavare a Mes Aynak nel 2009 – spiega l’archeologo Ketab Khan Faizi nel suo ufficio al Center for the Kushan Studies, nel quartiere Qala-e-Fatullah di Kabul -. Dal 2009 al 2012 ho diretto io i lavori dell’equipe afghana, che operava con il sostegno di un buon numero di archeologi ed esperti stranieri». Il professor Faizi, autore del libro Mes-e-Aynak-e-Logar in the Light of Archeological Excavations (Academy of Sciences, Archeological Research Center 2012), è consapevole di quanto sia rilevante l’industria mineraria per uno paese economicamente fragile come l’Afghanistan, dove il prodotto interno lordo pro-capite è di 470 dollari all’anno. Eppure rivendica comunque la necessità di preservare un patrimonio culturale come Mes Aynak: «È ovvio che il giacimento di rame meriti l’attenzione del governo afghano. Siamo un paese povero e abbiamo urgente bisogno di trovare settori economici che ci permettano di risollevarci, di diventare indipendenti. Ma questo non vuol dire che dobbiamo sacrificare agli interessi economici un sito archeologico di straordinario valore culturale come Mes Aynak, qualcosa di unico nono solo in Afghanistan ma in tutta la regione». Per dimostrare quanto dice, il professor Faizi porta l’esempio dei due principali monasteri buddhisti scoperti e studiati finora a Mes Aynak: Gol Hamid e Kafiriat Tepe. Kafiriat Tepe è un complesso monastico circondato da un ampio muro esterno difensivo di 80 metri per 35 e ornato di alte sculture di argilla e affreschi a muro. Gol Hamid invece è il secondo complesso ad essere stato scoperto dagli archeologi, è ricco come Kafiriat Tepe di sculture e dipinti e secondo i reperti analizzati dagli studiosi pare che sia stato abitato fino al 13esimo secolo, perlomeno nella parte centrale.
Per Ketab Khan Faizi si deve fare di tutto pur di salvare questi tesori archeologici dalla distruzione. Come farlo, rimane però una questione irrisolta, visto che le attività estrattive sembrano essere in conflitto con il lavoro archeologico: «il nostro lavoro richiede inevitabilmente una certa dose di lentezza, pazienza e attenzione. I minatori invece devono estrarre la maggior quantità di materiali nel più breve tempo possibile. Per questo, il governo si è impegnato a liberare il sito alla fine del 2013», ricorda Faizi. I tempi degli archeologi e quelli dei minatori sarebbero dunque incompatibili, «e arriverà il momento in cui lo scontro sarà inevitabile», sostiene Faizi.
«Pronto soccorso»
Per Philippe Marquis, responsabile della missione archeologica francese in Afghanistan, lo scontro tra protezione del patrimonio culturale e promozione degli interessi economici è solo apparente: «i media sbagliano quando presentano un’immagine semplicistica della questione, come se ci fosse una contrapposizione radicale tra la salvaguardia del sito archeologico da un lato e gli interessi dei cinesi dall’altra», racconta mentre mi guida nella scoperta degli scavi di Mes Aynak insieme a Mohammad Nadir Rasouli, l’attuale direttore dell’Istituto afghano di archeologia. Le cose sono molto più complicate e sfumate, spiega Marquis, che respinge con forza la lettura «dicotomica», finora prevalente nei resoconti giornalistici sul «caso Mes Aynak»: «Certo, in una situazione ideale e irrealistica sarebbe meglio evitare gli scavi minerari e lasciare che gli archeologi seguano i loro tempi e la loro agenda, ma siamo in Afghanistan, in questo particolare periodo storico, e dobbiamo riconoscere che senza l’investimento privato dei cinesi la maggior parte del sito archeologico sarebbe andata distrutta o saccheggiata, come altrove è già avvenuto». In un contesto come l’Afghanistan, dove la sicurezza è volatile e non c’è certezza del futuro, per Marquis è indispensabile conciliare i due interessi che si incontrano e scontrano a Mes Aynak, tutelandoli entrambi: «Stiamo conducendo operazioni di recupero ed emergenza, come quelle dei chirurghi nei pronto soccorso degli ospedali, è vero, questo nessuno lo nega. Ma intanto siamo qui, e questo è già un successo importante per l’archeologia», afferma Marquis prima di discutere con Mohammad Nadir Rasouli lo stato di avanzamento dei lavori.
Tra le dozzine di archeologi che lavorano sul campo, c’è chi critica la posizione di Marquis. «Come archeologo, credo che sia uno sbaglio enorme, un peccato mortale dover abbandonare completamente il sito prima del 2014», sostiene per esempio Azizi Wafa, un giovane archeologo afghano che lavora qui «da quattro anni ormai, tutti i giorni tranne il venerdì, quando torno dalla mia famiglia a Kabul». Anche Azizi Wafa riconosce che «l’Afghanistan ha bisogno di imparare a mantenersi sulle proprie gambe, dal punto di vista economico», ma ritiene che la prospettiva economica sia essenzialmente miope: «se ci limitiamo ad applicare la prospettiva economica, che punta ai profitti di breve periodo, rischiamo di perdere sia la nostra storia passata che il nostro futuro. La cultura è uno di quei beni che dura nel tempo, mentre il rame prima o poi è destinato ad esaurirsi, senza considerare che non è detto che a beneficiarne sia tutta la popolazione. La cultura, invece, è per tutti. È a disposizione di tutti».
Un museo locale
L’idea che dovrebbe rendere conciliabili gli interessi fin qui inconciliabili, ovvero l’apertura di un museo nell’area di Aynak, a circa venti chilometri dal sito archeologico, non convince gli esperti: «Un paio di anni fa, con l’aiuto della delegazione francese abbiamo trasferito alcuni reperti da Mes Aynak al museo nazionale di Kabul. Il guaio è che le cose più interessanti che abbiamo ritrovato, come le stupa, sono troppo grandi e troppo fragili per poter essere rimosse dal posto in cui le abbiamo trovate. Trasportarle altrove vorrebbe dire distruggerle. Non credo che il museo locale sia un’idea veramente realizzabile», sostiene Ketab Khan Faizi.

[do action=”citazione”]L’unico interesse è quello economico. Non ce ne sono altri che contino. I cinesi su questo sono come gli americani: pensano al loro portafogli. Non pensano certo alla salvaguardia del patrimonio culturale afghano[/do]

Anche Philippe Marquis ammette che «il trasferimento di reperti da Mes Aynak è un’operazione estremamente difficile e complicata. E altrettanto complicata sarebbe la gestione di un museo nella provincia di Logar», dove i movimenti anti-governativi fanno sentire spesso la loro presenza. Tra gli archeologi di Mes Aynak c’è chi ricorda le varie occasioni in cui sono stati sparati razzi verso la miniera e il sito archeologico. Qualcuno, in via anonima, aggiunge che «sono gli americani a pagare i Talebani perché impauriscano i lavoratori cinesi e li costringano a lasciare la miniera». Finora i cinesi però resistono, anche se in un paio di occasioni hanno invitato i lavoratori a ritornare in patria per un certo periodo.
Resistere fin quando è possibile sembra essere anche la filosofia di Omar Khan Massoudi, il leggendario direttore del Museo nazionale di Kabul, conosciuto in tutto il paese e all’estero per aver saputo proteggere i tesori afghani anche nei periodi più difficili della storia recente. «Abbiamo ottenuto che gli scavi proseguissero fino al 2014 – spiega -. In seguito, potremo aprire un museo dedicato nell’area circostante. Nel museo ospiteremo alcuni dipinti a muro, le monete e altri reperti. Ovviamente non le stupa più grandi. Ma su questo la nostra politica, che è anche una speranza, è molto chiara: nessun reperto deve andare distrutto», dice Massoudi.
Quale destino?
«È una questione di mancanza di volontà politica e di ignoranza. Non si capisce quanto sia importante la posta in gioco», sostiene Javed Noorani, un ricercatore afghano che per conto dell’organizzazione Integrity Watch segue le complicate vicende del settore minerario. «Se davvero lo volesse, al di là del contratto firmato il governo afgano potrebbe chiedere ai cinesi di posticipare ulteriormente l’inizio dei lavori di estrazione o trovare una soluzione alternativa. Il fatto è che non c’è un vero interesse nel chiedere una cosa del genere. L’interesse attuale è quello di ricavare soldi nel più breve tempo possibile, tutto il resto si vedrà», continua Noorani. A distanza gli fa eco quello che è forse l’archeologo più noto di tutto l’Afghanistan, il franco-afghano Zamaryalai Tarzi, docente emerito all’università francese di Strasburgo e già direttore della missione archeologica francese per gli scavi a Bamiyan, nella zona centrale del paese, dove l’abbiamo incontrato ormai diversi mesi fa. In quell’occasione, Tarzi ha riservato parole molto dure a tutti gli attori del caso Mes Aynak: «Il vero, unico interesse è quello economico. Non ce ne sono altri che contino. I cinesi su questo sono come gli americani: pensano al loro portafogli. Non pensano certo alla salvaguardia del patrimonio culturale afghano. Sarebbe ingenuo crederlo. E sarebbe ingenuo credere che ci pensi il governo», ha tuonato Tarzi prima di congedarmi con la sua previsione: «Mes Aynak verrà distrutto dagli scavi minerari. È questa la verità. E sarà una catastrofe per ognuno di noi, non solo per gli archeologi».