Tutto come previsto: l’accordo per la grosse Koalition è realtà. Ieri a mezzogiorno, a Berlino, i leader democristiani Angela Merkel (Cdu) e Horst Seehofer (della bavarese Csu) e il segretario socialdemocratico (Spd) Sigmar Gabriel hanno presentato urbi et orbi il programma del governo tedesco dei prossimi quattro anni: un malloppo di 185 pagine frutto di un mese e mezzo di serrate trattative e di un ultimo decisivo round durato fino a notte fonda. Per la formazione dell’esecutivo, però, bisogna ancora aspettare: il patto è stato firmato «con riserva» dai massimi responsabili della nascente coalizione, perchè l’ultima parola spetta ai congressi di Cdu e Csu, e alla base della Spd.

Un mero proforma quello dei democristiani, non così per i socialdemocratici.

Ora referendum Spd

Proprio il referendum fra i 470mila iscritti della Spd è il tema sul quale ora si concentra tutta l’attenzione. Un esperimento inedito – e positivo – di democrazia interna ad un partito, organizzato con molta serietà da una formazione uscita acciaccata dalle elezioni di settembre (25,7%, secondo peggior risultato dal dopoguerra). Una scelta obbligata da parte del gruppo dirigente: il corpo militante del partito non avrebbe mai accettato un’alleanza con i democristiani senza poter dire la propria. L’esito della consultazione – che si conoscerà il 13 dicembre – vedrà probabilmente prevalere il sì alla «grande coalizione», perchè l’intero stato maggiore spenderà fino all’ultima energia per ottenerlo. C’è da attendersi, tuttavia, anche una significativa opposizione: i settori più a sinistra non hanno risparmiato critiche lungo tutto il corso delle trattative.

«Minimo salariale per legge»

Per avere l’approvazione degli iscritti, Gabriel e compagni punteranno sui risultati ottenuti: minimo salariale per legge di 8,5 euro all’ora, abbassamento dell’età pensionabile da 67 a 63 anni per chi ne ha 45 di contributi, vincoli al lavoro interinale (non più di 18 mesi) e freno ai contratti di stabilimento peggiorativi rispetto a quelli nazionali di categoria.

Un bilancio che fa dire al quotidiano di centrosinistra Sueddeutsche Zeitung che a uscire vincitrice dalla trattative sarebbe proprio la Spd. Di diverso avviso la principale forza di opposizione, la Linke, che sottolinea i punti oscuri dell’accordo: il salario minimo legale sarà in vigore senza eccezioni solo dal 2017, e la soglia per la pensione dei lavoratori precoci sarà, dopo un periodo di transizione, non a 63, ma a 65 anni.

La rinuncia della Spd agli aumenti delle tasse per i ricchi, promessi in campagna elettorale, era cosa nota. Il cuore del patto con Merkel è tutto lì: la cancelliera uscente ed entrante ha accettato il salario minimo per imporre il proprio no alla patrimoniale e ad aliquote più alte. Assente dal programma anche l’introduzione del matrimonio egualitario sul modello spagnolo e francese, che figurava tra le proposte dei socialdemocratici: gli omosessuali dovranno continuare ad accontentarsi delle unioni civili senza un diritto pieno all’adozione. Una scelta che ha provocato già ieri la prima manifestazione antigovernativa, organizzata al volo nella capitale dalla principale associazione di gay e lesbiche della Repubblica federale (Lsvd). Per una discriminazione che resta, un’altra se ne va: verrà riconosciuta la doppia cittadinanza ai nati in Germania da genitori stranieri, che non sarano più obbligati a scegliere fra quella tedesca o quella della famiglia d’origine.

Sull’Europa come prima

Sull’Europa e la gestione della crisi prevale nettamente la posizione democristiana: la «narrazione» è quella di Merkel, all’insegna del successo economico dei parsimoniosi tedeschi contrapposto all’irresponsabile propensione agli eccessi di spesa altrui. Nel testo dell’accordo è esplicitamente esclusa ogni forma di mutualizzazione dei debiti pubblici, e torna con insistenza la necessità che i «Paesi in crisi» adottino «riforme strutturali» per aumentare la competitività. Qualche concessione retorica all’importanza di nuovi investimenti, con il richiamo alla messa in pratica del fantomatico «patto per la crescita» del luglio 2012, voluto dal presidente socialista francese François Hollande, rimasto finora lettera morta. Un patto che porta in dote 120 miliardi di euro per misure di riattivazione dell’economia continentale che riducano la disoccupazione, in particolare giovanile (altissima ad esempio in Spagna e Grecia). Può sembrar tanto, ma in realtà sono pochi spiccioli: appena l’1% del Pil dell’Unione europea. E decisamente insufficienti per lo scopo che si prefiggono: secondo la confederazione dei sindacati europei (Ces) andrebbero sborsati annualmente 260 miliardi per un intero decennio.