Non è possibile comprendere i significati dellʼarte contemporanea senza penetrare la dinamica dei rapporti sociali in cui nasce e da cui dipende. E nella rete di relazioni del sistema artistico moderno la figura del mercante è nodale. Per questo la memorialistica dei galleristi, in ogni sua declinazione, dal diario all’intervista, è materia sempre interessante, al di là delle finalità e delle vanità degli autori. A questo discorso si può riferire anche Ricordi di un mercante d’arte (Skira, pp. 144, euro 14,90, traduzione di Enrico Arosio) di Heinz Berggruen, rinomato art dealer e collezionista. Edito originariamente in lingua tedesca nel 2001, il libro, pur avendo carattere di racconto confidenziale, non è la biografia di Berggruen, che è uscita nel 1999 ed è stata tradotta lʼanno successivo in italiano (Strada principale e strade secondarie: memorie di un collezionista, Edizioni GAM). Inoltre, a dispetto del titolo, il volume raccoglie memorie non necessariamente legate al mercato e neanche al campo dell’arte; si tratta infatti perlopiù di aneddoti di storia personale, rievocati con sobria nostalgia, che si susseguono senza un chiaro filo conduttore.
Heinz Berggruen nasce nel 1914 a Berlino in una famiglia di negozianti ebrei. Avido lettore, in gioventù coltiva aspirazioni da giornalista. «Nelle famiglie ebree borghesi “ben collocate”, come si diceva allora, i genitori si aspettavano sempre che i figli diventassero “qualcosa di speciale”, che fossero medici, avvocati o professori, in ogni caso con titolo accademico, in breve “luminari”. Commercianti lo erano già, dai figli volevano qualcosa di più. “Che cosa vuoi diventare, giornalista?”, mi disse mia madre. “Non è un buon mestiere.” E, dopo una pausa: “A meno che non diventi direttore, o editore, o tutt’e due”».
Incurante dei moniti, il giovane Heinz inizia a scrivere, prima qualche colonnino per il «Frankfurter Zeitung» e poi necrologi su «C.V. – Zeitung», rivista «non ariana». Purtroppo nel frattempo il clima in Germania degenera e così nel 1936 Heinz decide opportunamente di spostarsi – che non si dica «fuggire» – a San Francisco, per studiare a Berkeley. In America trova scampo all’orrore e occasioni di lavoro, ma non una nuova Patria. Rientra in Europa durante la guerra, servendo nei ranghi dellʼesercito statunitense, e, dopo un periodo in cui è impiegato nella redazione di «Heute» a Monaco di Baviera, si stabilisce a Parigi nel 1947. In Francia ha modo di armonizzare il pragmatismo materno con le proprie velleità intellettuali avviando una redditizia compravendita di opere dell’avanguardia modernista.
Oltre a fare fortuna, l’impresa gli consente di mettere gradualmente insieme una collezione d’arte, notevole per grandezza e qualità. È grazie a questa raccolta che Berggruen ritrova, a decenni di distanza dal suo espatrio, una faticosa riconciliazione con il Paese d’origine. Nel 1995 stipula un accordo con le istituzioni tedesche per ospitare il suo tesoro in un edificio eretto da Friedrich August Stüler (1800-1865) dinanzi al Castello di Charlottenburg, a Berlino. La Collezione Berggruen apre al pubblico nel 1996, nel 2000 viene acquisita ufficialmente dallo Stiftung Preussischer Kulturbesitz e nel 2004 cambia denominazione in Berggruen Museum. Dunque, con il riconoscimento del valore culturale della sua raccolta, Heinz sancisce infine di essere «qualcosa di più» di un mercante, diventa un «luminare». Poco dopo, nel 2007, muore.
Nel libro, di questa vicenda si possono leggere alcuni dettagli e qualche impressione soggettiva; mentre il rapporto con la Germania è un tema ricorrente e trasversale. Quanto agli artisti, l’autore non azzarda critiche, limita i pettegolezzi e si muove sempre entro i confini dell’elogio. Gli apprezzamenti sullʼopera dei maestri – Klee, Matisse, Giacometti e soprattutto Picasso – sono prescindibili; meno banali invece le considerazioni sui caratteri degli individui. «Al contrario di Picasso, Matisse era un uomo d’affari piuttosto riservato, sebbene, a modo suo, severo. Picasso, che aveva vissuto una giovinezza in condizioni materiali assai modeste, e lasciò questo mondo, novantaduenne, da multimilionario, tendeva a gestire i suoi affari con la pancia. Matisse, cresciuto in un solido ambiente borghese, le questioni finanziarie le affrontava con la testa».
Con più orgoglio che tenerezza, Berggruen rammenta di aver incontrato Frida Khalo nel 1939 a San Francisco, al seguito di Diego Rivera. L’infatuazione reciproca tra Heinz e Frida è fulminea e quasi propiziata da Rivera stesso. I due decidono di «fuggire» – qui sì, è ammesso l’uso del verbo – a New York, dove consumano una breve relazione. Berggruen dichiara con candore che all’epoca non solo non aveva mai visto un quadro di Frida, ma nemmeno sapeva che lei dipingesse.
Per il resto, se Gianni Agnelli e il barone di Rothschild sono campioni di buone maniere e gusti raffinati, altri meritano meno deferenza. Alla fine degli anni settanta la Galerie Berggruen finanzia la realizzazione del catalogo generale dei dipinti di Juan Gris. La cura del volume è affidata a Douglas Cooper, studioso britannico che sotto le armi aveva agito con l’intelligence della Royal Air Force per il recupero delle opere d’arte razziate dai nazisti agli ebrei. Cercando in qualche modo di giustificare l’indole scorbutica di Cooper, Berggruen definisce i critici d’arte «una corporazione non proprio esente da complicanze, per dirla senza infierire». Ce n’è anche per i mercanti. Kahnweiler non ha umorismo, Vollard è un «uomo testardo e difficile», e Pierre Loeb un caro amico senza senso degli affari.
Berggruen è leggero ma non frivolo, predilige la forma breve, la descrizione concisa di un avvenimento curioso da commentare con arguzia. Il libro si chiude con un articolo datato 1937, quando il giovane Heinz è in California. Il pezzo permette di valutare in una certa misura l’evoluzione nel pensiero di un uomo che amava Heine e Mann, e avrebbe voluto fare lo scrittore, invece è diventato ricco vendendo quadri, benché detestasse l’appellativo di «gallerista».