All’origine di Memory Box, il nuovo film di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige ci sono i diari e le cassette che Joana mandava negli anni Ottanta – tra il 1982 e il 1988 – a un’amica che aveva lasciato il Libano devastato dal conflitto per rifugiarsi in Francia, e le fotografie realizzate nello stesso periodo da Khalil. E soprattutto c’è il vissuto di questa straordinaria coppia di artisti che nella loro ricerca – al cui centro c’è il cinema ma sempre in dialogo fertile con altre forme espressive – hanno riscritto e continuano a riscrivere la storia del loro Paese, il Libano, a partire appunto dall’esperienza della guerra civile resa memoria e insieme continua riflessione sul presente.

A loro il Torino film festival ha dedicato la retrospettiva (curata da Massimo Causo) che è stata uno dei successi dell’edizione, e Memory Box – presentato nel concorso della scorsa Berlinale sarà nelle nostre sale nei prossimi mesi. Rispetto altri film dei due registi è quello (forse) in cui la necessità di una trasmissione del passato tra le generazioni – mai chiusa in un unico punto di vista – è più evidente: al centro c’è infatti la figura di una donna, Maia – la magnifica Rim Turki – che giovanissima insieme alla madre ha lasciato il Libano per sfuggire la violenza trovando asilo in Canada.

Molti anni dopo le arriva a casa una scatola misteriosa che rifiuta di aprire; a guardarci dentro sarà la figlia adolescente scoprendo così la vita «segreta» della madre, i dolori e le cesure, i sogni, gli amori che ha cancellato – e con essi una parte di sé – per sempre. Tra quei giorni di una ragazza un po’ come è lei ora c’è anche la storia del Libano, ci sono un’utopia, una giovinezza quella della mamma e dei suoi amici che insieme sfidavano la guerra rivendicando il diritto a stare al mondo. Dicono Hadjithomas e Joreige: «Ci siamo chiesti riprendendo in mano quei materiali in che modo dobbiamo parlare di certi temi ai nostri figli. Quali potevano essere gli effetti di questa corrispondenza su nostra figlia adolescente come eravamo noi allora? In che modo si può trasmettere una storia che è anche la propria? Con quali immagini, con quale scrittura? Quando si rivisita a distanza il proprio passato vi si trovano delle diverse possibilità di narrazione. Nel film la figlia di Maia legge i diari della madre, ascolta le cassette, guarda le fotografie e si sente vicina a lei grazie a piccole cose come la musica; la grande storia, quella con la «S» maiuscola, può diventare più vera se viene osservata nei dettagli della vita».

«Lo stesso sguardo lo abbiamo posto sulle fotografie di Khalil provando a illuminarne le motivazioni. I colori, i corpi in quelle immagini degli anni Ottanta sono molto diversi a cominciare dalla grana di cui sono fatte rispetto al digitale che si usa ora: quale poteva essere la prospettiva da cui riguardarle? Volevamo restituirne la veridicità che non significa «ricostruire» un’epoca ma provare a coglierne il sentimento, la molteplicità dei significati. Ricordo che quando giravamo Khiam 2000-2007 (sul campo di detenzione nel sud del Libano, distrutto durante la guerra del luglio 2006, ndr), una delle persone detenute che abbiamo intervistato ci ha detto che per anni ha visto il corridoio della prigione dalla porta della cella; quando ci è passata il corridoio «reale» non poteva sostituire nella sua mente quello immaginato. La memoria è fluttuante, imprecisa, il tempo e la storia producono molte rotture, e nella molteplicità dei ricordi si può perdere la nozione del tempo».

Parliamo al telefono con la videocamera accesa, durante la proiezione di uno dei loro film. Le frasi di Joana e Khalil si completano a vicenda in un dialogo comune proprio come accade nel loro lavoro.

Questa ricerca di una memoria che attraversa la vostra opera trova a ogni passaggio una modalità di confronto diversa nella scrittura, nelle esperienze di cui si nutre, nelle immagini che intrecciano un discorso narrativo e una parte «documentaria».
La memoria è per noi uno spazio in cui proviamo a costruire un racconto comune. Nel caso di Memory Box abbiamo utilizzato elementi «reali» della nostra vita, i diari di Joana e le mie foto, diverse cose che abbiamo vissuto noi e i nostri amici e anche se preferiamo non fare distinzioni tra «generi» – termini come finzione, documentario non ci corrispondono – la distanza narrativa nella scrittura (la sceneggiatura è dei due registi insieme a Gaelle Macé, ndr) ci ha permesso di utilizzare i nostri vissuti senza fare dell’autobiografia. Interrogarsi sulla trasmissione delle conoscenze significa anche, almeno per noi come artisti, mettere in gioco la nostra stessa relazione con la memoria, col passato, vuol dire chiedersi come la violenza viene resa nelle immagini, cosa significa costruire un «immaginario». La protagonista del film ha messo in atto una rottura molto netta nel momento in cui ha lasciato Beirut decidendo di non tornare mai più indietro. Ha per questo rinunciato a molte cose, ma è una condizione comune, che si ritrova in tante persone costrette per qualsiasi ragione all’esilio. La figlia invece vuole sapere. È su questo bordo che lavoriamo.

In che senso?
Per esempio: delle persone scomparse non si è mai parlato e nemmeno di quelle che sono state detenute, tutto ciò che riguarda la guerra continua a essere taciuto come se non fosse mai successo. Il problema è che in Libano non c’è stata una transizione tale da permettere un racconto collettivo e condiviso di quegli anni. Alla fine della guerra c’ è stata una amnesia generale, le persone hanno scelto cosa raccontarsi, e questo fa sì che ovunque ci sono dei segreti. Di fronte a situazioni che si ripropongono con prepotenza oggi come la crisi economica, la svalutazione della lira libanese, fino all’esplosione del porto di Beirut che ha cancellato per sempre i luoghi come erano nella nostra memoria, la necessità di non mettere il passato tra parentesi si fa ancora più forte per non ripeterlo, per affrontare più lucidamente il presente.

La vostra storia del Libano pur mantenendo centrale la guerra civile passata attraverso molte piste e svela particolari mai raccontati o che almeno non vengono ricondotti al Libano, come l’avventura spaziale di cui parla in «The Lebanese Rocket Society» (2012).
Abbiamo scoperto questa vicenda grazie a delle ricerche che stava facendo mia sorella (è Joana a parlare). Abbiamo visto una fotografia e volevamo saperne di più. Era una piccola storia, ma abbiamo trovato pian piano tutti i protagonisti, uno di loro aveva conservato molti materiali. In qualche modo il riferimento è sempre la guerra ma al contrario questo progetto di ricerca – i razzi lanciati tra il 1960 e il 1967 dai ricercatori dell’università di Haigazan – voleva essere una celebrazione della scienza. La sconfitta araba del 1967 vi ha posto termine e di quell’avventura non si è più parlato. Come di moltissimo altro. Pian piano l’immaginario intorno al Libano si è conformato sul conflitto continuando al tempo stesso a occultarlo attraverso una narrazione parziale. La guerra oggi sembra essere diventata un accidente ma la violenza di quei quindici anni dove è finita? Può essere scomparsa da un giorno all’altro? Ripercorrere la storia attraverso le immagini significa anche lottare contro le ricostruzioni di quanto è accaduto cercando nel passato voci e punti di vista molteplici. Crediamo anche nella fragilità che comporta ripercorrere una certa storia personale o collettiva, ma pensiamo che sia importante trovare insieme una parola condivisa con cui dare voce a un «noi».