Come dovesse finire la partita Alberto Arbasino l’aveva ben chiaro: voleva un funerale in Santa Maria del Popolo, a Roma, a pochi passi da casa sua, con una messa celebrata all’altare della cappella Cerasi, lì in fondo, a sinistra del presbiterio, lì dove sulle pareti stanno la Crocifissione di San Pietro e soprattutto la Conversione di Saulo del Caravaggio, lì dove era stato celebrato il funerale di Carlo Emilio Gadda. Aveva chiari anche in testa i pezzi musicali che voleva si ascoltassero durante il rito ed era convinto che sarebbe stato il «morto del rione»: un’espressione che non conoscevo e che mi faceva ridere, mentre spiegava minutamente i dettagli della cerimonia. Non eravamo al Bolognese, dove mi invitava di solito (e dove, per esempio, era scattata la scintilla che aveva portato al ritrovamento del «Dosso di Bombay»), ma a una più semplice trattoria, passato piazzale Flaminio, il cui oste lui chiamava il Socrate romano o qualcosa del genere. Voleva insomma morire da lombardo a Roma, come l’autore della Cognizione del dolore o come l’autore odiato-amato (ma poi soprattutto amato e perdonato) di Senso e di Ossessione.
Ora niente di tutto questo è possibile, in mezzo a una peste diversa dall’altra attraverso cui siamo passati quando eravamo giovani e che sembrava colpire, almeno nel mondo occidentale, soprattutto quelli come noi; in più Alberto aveva vissuto la guerra, aveva visto suo padre arrestato dai fascisti: una vicenda che aveva cercato di dimenticare, sigillata dentro di sé.
Provo a scegliere qualcuno degli episodi di una lunghissima amicizia che mi sono venuti a visitare questa notte, interrotta solo dai fischi delle autoambulanze. Comincerò dalla fine, cercando di procedere – è una deformazione professionale – in ordine cronologico e andrò avanti fino a che lo spazio concesso dal numero delle battute me lo permette; il resto, come diceva Desideria, sarà, semmai, per un’altra volta.

La chiesa di Krautheimer
L’ultima occasione d’incontro mi è ben chiara, anche se non sapevo che sarebbe stata tale: al principio del 2018, a casa sua a Milano, in via Molino delle Armi. Era già una stagione in cui la conversazione di Alberto, un tempo fluida e imprevedibile e inarrestabile, si era trasformata in una litania di «grazie, grazie» e «auguri, auguri». C’era in quelle espressioni una sorta di riconoscenza, che gli scappava malgré soi con chiunque. Ma superata la barriera, ormai da qualche tempo rituale, di quelle espressioni, c’era ancora posto per la commozione davanti a un tramonto che incendiava la basilica di San Lorenzo. Ci ricordavamo tutti e due che Richard Krautheimer, il massimo conoscitore della Roma medioevale e barocca, la considerava la chiesa più bella dell’Occidente: e Alberto la vedeva ormai tutti i giorni dalle finestre della sua stanza, dal suo balcone. In casa erano già stati fatti i lavori per ricavare dal salotto, con le incisioni di Füssli e di Piranesi, uno spazio per una persona che potesse accudirlo; Stefano infatti era gravemente malato e molto provato da una situazione da anni difficile, tanto da avere deciso di fare abbandonare Roma ad Alberto e di tenerlo con sé a Milano. Tranne la presenza dei famigliari dell’uno e dell’altro, erano entrambi molto soli; quasi nessuno li andava a trovare, pochi si facevano vivi al telefono. Stefano mediava con il mondo e infatti la notte totale è cominciata quando lui non c’è stato più.
Stefano il «prisonnier» degli anni Sessanta, Stefano impeccabile e musone, Stefano con la r, Stefano mangiato con gli occhi in ascensore da Jacqueline Kennedy, Stefano che disegna gli omini intrecciati – quasi dei Keith Haring ante litteram – sulla copertina di Sessanta posizioni: una proiezione di Alberto? O, meglio, una delle grandi storie d’amore dell’altro secolo?
Vado all’indietro di un paio d’anni, direi il 2016: Alberto a casa mia, tra il disordine dei volumi, che occupano tutti gli spazi possibili, indica La fine del mondo di Ernesto De Martino, l’esito interrotto di una ricerca sulle apocalissi culturali, che metteva insieme Proust e i movimenti di liberazione del terzo mondo, e dice: «Che grande libro». Mai e poi mai avrei pensato che De Martino potesse stare tra i riferimenti di Alberto. La sua era una cultura solidissima, cementata di nozioni e di erudizione, di genealogie e di conflitti. Ricordava, senza difficoltà alcuna, le coalizioni contro Napoleone o gli intrighi alla corte del Re Sole. Ma l’esibizione di tutte quelle parentele non era fine a sé stessa, come dicevano i suoi detrattori (perché Arbasino ne ha avuti moltissimi, ora apparentemente dissolti come neve al sole). In altre parole, lui aveva ben chiaro che le opzioni della storiografia italiana, mettiamo quella del Cinquecento, non si riducono alla contrapposizione binaria, e manualistica, tra Machiavelli e Guicciardini. Stava, con il suo cuore e la sua testa di lombardo, dalla parte, laterale, di Paolo Giovio. O, spostando la questione in un altro contesto e per renderla appena più facile a cogliersi, da quella di Saint-Simon. Quando gli dicevo di Dionisotti e di quanto quella lezione, tra storia e politica, fosse stata e fosse importante per me, lì mi sfuggiva. Un «non lo conosco abbastanza», «non l’ho mai letto»: e passava via con una boutade, magari un accenno al fatto che la figlia del sommo italianista aveva recitato in Intimacy di Chéreau, il film tratto da un racconto di Kureishi. E via per un altro giro tra gli ottovolanti del gusto.
Non è difficile recuperare nella memoria l’ultima notevole uscita pubblica di Arbasino a Milano: erano i giorni d’avvio dell’Esposizione universale, quindi l’inizio di maggio del 2015, e Anna Crespi aveva organizzato, apparentemente senza una ragione, una serata per Alberto agli Amici della Scala, anzi gliel’aveva chiesta lui. C’erano tutti i suoi amici; io e Carlo Feltrinelli riuscivamo ancora, in quel contesto e tra quelle anagrafi, a fare la parte dei giovani: e Alberto ci è venuto incontro pronunciando dei numeri, apparentemente senza senso, ma poi ha preferito altre compagnie. Orsi entrambi, Carlo e io, siamo venuti via quasi subito e sul marciapiede di via dei Giardini ci siamo interrogati, come da ragazzi, sul significato di quelle cifre: quasi contenessero un segreto. Ma quella festa, ce lo siamo detti subito dopo, era un po’ come quella d’addio in Veronika Voss, il penultimo, lampeggiante, film di Fassbinder (che Alberto aveva incontrato, al principio degli anni Settanta, alla Deutsche Asche, a Monaco, avendo immediatamente compreso che si trattava di un genio). E quindi Memories are made of this.

Una galleria di congedi
Un po’ prima, quando Alberto faceva ancora un po’ di vita sociale a Milano ed erano usciti da poco, da Adelphi, i suoi Ritratti italiani: in sostanza una galleria di congedi. Una colazione a casa di Rosellina Archinto; io arrivo un po’ prima di lui e Rosellina e Inge mi parlano della fotografia di Alberto comparsa, a tutta pagina, sulla copertina del supplemento del Corriere della Sera: un’immagine per loro incomprensibile, per il disordine fisico, dai capelli alla vestaglia, alle rughe esibite, con cui si era presentato davanti all’obiettivo, e, allora, in coro, un: «perché tu, che sei un uomo, non gli dici qualcosa?». Proprio io, la persona meno adatta in quel ramo del reale: Alberto, con quell’immagine, dichiarava che per lui la recita era finita; era in camerino e si stava struccando.
Un’altra freccia di stanotte, più antica (ma non certo la più antica), era la visita nel 1994 al Poussin del Grand Palais, a Parigi; io ero con Luciano Bellosi, che non amava il pittore normanno («andrei più volentieri a vedere una mostra di Laurent de La Hyre», mi aveva detto sull’aereo). Incontriamo Alberto tra le sale della mostra e ne guardiamo un pezzo insieme, stupiti dalla luce naturale che insolitamente si rovescia sui dipinti, al posto dei soliti fari e faretti. Alberto, come me, era invece un fanatico di Poussin: il Rinaldo e Armida del Dulwich College era appena finito sulla copertina dei suoi definitivi Fratelli d’Italia; c’era già stato, nella versione Einaudi 1976 di quel capolavoro, il Trionfo di Nettuno di Filadelfia. Luciano era stupito dalla sensibilità per la pittura che Alberto dimostrava in ogni tratto, dal suo senso della qualità. E sì che lui non era mai riuscito a capacitarsi della mia passione per i Fratelli d’Italia: insieme a Petrolio e da prima di Petrolio, il libro della mia vita, quello che mi ha dato un orizzonte, a cui sono ricorso nei momenti belli e brutti, i cui personaggi – perché lì ci sono i personaggi, immortali, proprio come quelli dei Promessi Sposi, anche se Alberto voleva e credeva che fossero solo funzioni – mi stanno di fronte in tante circostanze dell’antropologia quotidiana. Di fronte ai Baccanali e ai Sacramenti Luciano aveva capito che erano entrambi allievi dello stesso maestro, Roberto Longhi, che aveva letto e riletto e corretto la tesi dell’uno e i racconti dell’altro. Ma adesso il tempo è scaduto; ci tocca la prima linea.