L’ultimo libro di Simone Pieranni pare essere programmatico già dal titolo: La Cina nuova (Laterza, pp. 208, euro 16). Già attraverso di esso l’autore chiarisce che al paese di cui egli parla non si possono più applicare pigramente gli schemi manichei con cui troppa pubblicistica è usa riferirsi alla «nuova Cina»; quella diade lessicale ormai consolidata indica in realtà un paese cui si dovrebbe guardare con chiavi di lettura inedite, magari anche avendo accesso diretto alle fonti in cinese (chi si sognerebbe, oggi, di parlare di Stati Uniti senza conoscere l’inglese? È plausibile che questo non valga per la Cina?).

Con La Cina nuova Pieranni cerca di fornire nuovi strumenti di analisi e nuove prospettive, con la chiarezza esemplare alla quale ci aveva già abituati in Red Mirror (2020) e non solo. Si può non essere d’accordo con tutte le argomentazioni proposte, ma il volume fornisce una messe ricchissima di dati e di fatti dai quali muovere per ampliare eventualmente la riflessione. Pure se ospitato nella collana delle Letture di Laterza, non si tratta esattamente di un livre de chevet: è una lettura impegnativa e il consiglio è di fare attenzione alla divisione interna del volume, atta a guidare efficacemente il lettore attraverso una serie di macro-temi che possono anche essere affrontati separatamente. Nel contempo, questo non è un libro costruito per «parole chiave», perché alla fine della lettura si ricava una immagine complessiva e complessa della Cina di oggi, articolata secondo alcune direttrici principali di analisi e di riflessione e il ragionamento procede con l’ambizione di produrre un quadro organico, anche se aperto e tutt’altro che definitivo.

IN QUESTO SENSO, contenuti sociali e politici si intrecciano con riflessioni più ampie, sollecitando il lettore su questioni che non sono «cinesi» ma che, correttamente declinate, potrebbero contribuire a nutrire una sorta di nuovo «ecocriticismo», dal quale risulti chiaro quanto sia oggi vitale la capacità di abbracciare in uno sguardo globale la cultura umana laddove si voglia davvero comprendere quanto e come essa impatti sul «mondo fisico» in cui abitiamo. In tale direzione, il discorso sulla «memoria», che apre il volume, sollecita a focalizzarci sulle diverse «tecniche di costruzione» della memoria, posto che la memoria è sempre una costruzione. È certamente vero che il passato cinese è sottoposto da sempre a revisione, ma le storie dinastiche hanno sempre esplicitato la «prassi metodologica» utilizzata per la narrazione della presa del potere, senza che questa apparisse un sopruso agli occhi del Cielo.

Il gioco è a carte scoperte, o almeno lo è per coloro che hanno gli strumenti per leggerlo (non solo in Cina) e ci si azzarda a dire che non è sostanzialmente cambiato. Certo, oggi, in Cina come altrove, la gente legge, scrive e usa i social e in questo senso gli effetti della costruzione di una memoria sono (o forse solo sembrano) più pervasivi. Il solo discorso sulla memoria, che tocca anche la memoria dei luoghi e si intreccia col discorso che Pieranni sviluppa intorno alle metropoli, richiamando la straordinaria figura di Liang Sicheng e la sua visione della «preservazione» della città, che certo non ebbe molto ascolto nella Cina di Mao, ma che oggi guardiamo anche da prospettive diverse, preoccupati del processo di «musealizzazione» delle nostre città d’arte.

LE METROPOLI, il loro presente e il loro futuro sono temi che si intrecciano con moltissimi degli argomenti che il libro tratta: dalla città ricomponibili come in un cubo di Rubik rappresentate anche in molta fantascienza, alle «città fantasma» che fino a ieri forse pareva che tanto fantasma non fossero più, ma sulle quali sospendiamo il giudizio, perché oggi il possibile, ventilato crack del colosso immobiliare Evergrande solleva di nuovo qualche dubbio. Non è a caso che Pieranni dedichi parecchie pagine proprio alla fantascienza: oggi essa corre in parte il rischio di essere cannibalizzata dalla narrazione politica mainstream e utilizzata come alfiere che anticipa le nuove frontiere della intelligenza artificiale; ciò nondimeno, essa ha avuto un ruolo nel dibattito politico e culturale non solo alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, come anche il libro ricorda, ma anche negli anni Cinquanta, e poi nei primissimi anni Ottanta, sempre nell’ambito di quel faticoso respiro a fisarmonica in direzione delle cosiddette «aperture» cui la Cina ci vuole nostro malgrado abituare e cui dobbiamo nostro malgrado abituarci, se vogliamo tentare di capire quali processi la attraversano.

Parlare di fantascienza, così come parlare di «numeri» nella sezione denominata «Ordine e caos» consente a Simone Pieranni di inserire un discorso sulla contemporaneità entro uno schema culturale più ampio, in modo tale che risulti evidente un elemento di «continuità» nella storia cinese, anche recente, che ha continuato ad agire sottotraccia anche nelle fasi in cui più drammatiche parevano le rotture. Quella che l’autore chiama l’ossessione per l’ordine, o per l’armonia si intreccia con un desiderio di «stabilità» che intercetta l’essenza più profonda dell’animo contadino che forse alberga ancora in Cina: ai contadini Pieranni dedica pagine molto interessanti. Qui non ci racconta del fenomeno della urbanizzazione di massa o del sistema dei «certificato stabile di residenza» o hukou utilizzato nei primi anni della Cina comunista nell’ottica di una pianificazione iper-centralizzata, ma ancora parzialmente in vigore. Sono questioni che il libro affronta, ma in altra parte, laddove ci racconta della «meritocrazia» in Cina e va detto che anche questo modo non comune di collegare argomenti «tangenzialmente» pertinenti tra di loro apre prospettive interessanti di riflessione.

RACCONTANDOCI dei contadini, l’autore si sofferma piuttosto sulla nuova narrazione della campagna, non del tutto estranea al bisogno della Cina di affermarsi come potenza attenta all’ambiente e non sorda alle richieste dei suoi cittadini in questo ambito, cui peraltro sono dedicate molte pagine nella sezione «Airpocalypse/Civiltà Ecologica». Conosciamo in questo modo Li Ziqi, una blogger famosissima in Cina e nel mondo (la più «cliccata» fuori dalla Cina), che ci presenta una dimensione agreste invero un poco patinata, ma perfettamente capace di intercettare quel «bisogno di campagna» che emerge nei millennials, per sottrarsi al caos urbano e alla logica del 996 (lavorare dalle 9 a.m alle 9 p.m. per sei giorni la settimana), ma anche per accudire eventualmente anziani cui lo stato non garantisce sufficiente sostegno o per assicurare ai propri figli un’aria più respirabile.
È una campagna che l’e-commerce, efficientissimo in Cina, parrebbe avere reso più vicina, una campagna che – soprattutto nel ricco sud – si è arricchita di contenuti tecnologici e di innovazione, ma che ha bisogno di giovani affinché l’innovazione si cali nella vita quotidiana e dia frutti.

Non a caso, il famoso hukou urbano, per tornare a uno dei temi accennati, miraggio dei contadini inurbati fino a poco più di un decennio fa, non è più così ambito, perché non consente di acquistare terra in campagna. La dicotomia «campagna-città», come altre «dicotomie» proposte nel libro sono solo pretesti per riflettere prendendo in considerazione un ampio ventaglio di variabili e mai strumenti di contrapposizione faziosa – una fra tutte, certamente meritevole di riflessione, viene evocata dalle pagine dedicate al «socialismo», quella che, nelle università cinesi di oggi, oppone curiosamente lo studio del Marxismo a quello del «Marxismo occidentale». Insomma, non sul tavolino da notte, sarebbe un peccato: il libro, come il paese di cui parla merita una vigile, diurna ma anche diuturna attenzione.

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*Ordinaria di Lingua e Letteratura cinese all’Università degli Studi di Torino