Il romanzo di esordio di Eleonora Marangoni sembra muoversi attorno a due sostanziali elementi il cliché e il passato e lo fa sciogliendo l’uno nell’altro con sorprendente abilità. Lux (Neri Pozza, pp. 256, euro 17) è la storia di un’eredità insolita, ma anche di una vita contemporanea isterica divisa tra più città; di una quotidianità in cui successo e benessere si intrecciano spesso in maniera complicata e quasi mai salutare.

Eleonora Marangoni mescola con cura ogni elemento presente sulla sua mappa, lo gestisce spesso con fredda eleganza, ma è proprio nell’amalgama di contenuti apparentemente scarni e basici che l’autrice sa compiere un lavoro di traduzione dentro al quale il passato prende la forma di un oggetto finalmente malleabile; sarà bene farci i conti non più per i suoi spigoli qui levigati, bensì per la forma imprevedibile che è capace di assumere di volta in volta rifrangendo dai giorni passati una luce imprevedibile.

LENTAMENTE i protagonisti sembrano calarsi all’interno di un mondo dimenticato e abbandonato. In un capovolgimento radicale e mimetico il contemporaneo diviene così il museo di una psiche collettiva che ora il passato osserva solennemente con le bruciature e le scalfitture di un tempo in continua elaborazione. Non è l’abbandono l’osservato, ma l’osservatore degli scambi, delle indecisioni di protagonisti da un lato sempre più inadatti a se stessi.

Lux vive di una estrema e luminosa lucidità, non priva di mistero. Marangoni evita la pacchianeria del romanzo decadente come del giallo amoroso dando spazio a fantasmi psichici che sembrano portarsi a braccetto Henry James e Christopher Isherwood. L’eros della luce e quindi quello dell’isola, quello della perdizione al centro di tutto, del caos a pochi metri come dell’infinita distanza da un tempo che si fa oggetto fuori uso eppure potentemente gravitazionale. È l’eredità come erotica di un passato che si fa luce inevitabile. Un coinvolgimento insensato e quindi proprio per questo fortissimo e attrattivo.

LA SCRITTRICE è dunque abilissima nel costruire pagina dopo pagina un libro che non si piega al cliché di ciò che dovrebbe essere classico, anzi lo fomenta come elemento poetico di una contemporaneità che pur rivelandosi tristemente superficiale non può non esaltare una vitalità troppo spesso dimenticata. Lux quindi come corpo della luce che prende forma ogni volta sorprendendo e rivelando. Un dialogo amoroso con la memoria che prende nuova vita: sembra quasi di vedere passare Bernard Berenson tra le pagine in cui il vecchio hotel in stato di abbandono viene descritto, un luogo in cui la memoria risale viva dall’assenza più che dall’abbondanza.

Un romanzo rapido e insolito che lavorando attorno a casi e oggetti singoli racconta di come un tempo comune si possa prestare sempre a una memoria intima e affamata di un eros necessario e imprevebile. Il ricordo come il sentimento amoroso – direbbe un grande francese – vive sempre di lucidità e mai di buon senso. E per fortuna.