A 89 anni Melvin Van Peebles ha tolto il disturbo, è il caso di dirlo, perché si tratta di un antesignano dei registi neri e di un autentico e fantastico rompiscatole. In oltre sessanta anni di carriera Van Peebles ha continuato a reinventarsi. Nato a Chicago in piena depressione si è poi laureato in Ohio, ha lavorato tre anni per l’aviazione statunitense, poi, visto che nessuna compagnia aerea assume un afroamericano, fa diversi lavori. Arrivato a Hollywood un fotografo gli suggerisce di tentare come attore, ma gli unici ruoli proposti sono quelli del ragazzo dell’ascensore e del parcheggiatore. Già padre di due figli, avuti dalla moglie, bianca, Maria Marx (uno dei due è Mario, divenuto a sua volta regista, interprete e sodale del padre) Melvin decide di mollare gli Stati uniti e di partire per l’Europa.

PRIMA AMSTERDAM, dove piazza il suo secondo nome Van tra nome e cognome per sembrare olandese, e lì fa qualche comparsata a teatro. Ma poi è Parigi dove naufraga il suo matrimonio, mentre lui campa come gigolo e come collaboratore della trasgressiva rivista Hara Kiri (sono considerati i precursori di Charlie Hebdo), ma incontra anche Henri Langlois, il mitico responsabile della Cinematheque, che mostra di apprezzare un paio di corti che Melvin ha nel frattempo realizzato. Scrive alcuni romanzi, uno dei quali diventa il suo primo film Story of a Three Day Pass, realizzato con finanziamenti pubblici, possibili perché per i francesi lui era un regista. Si tratta della storia d’amore tra un militare statunitense in Europa e una donna bianca. Successo di stima al festival di San Francisco dove il film viene presentato come francese e il regista salutato dalla stampa, impropriamente, come primo regista afroamericano. Così con quel poco di credito rimediato la Columbia gli produce L’uomo caffelatte. Una storia bizzarra che ribalta alcuni stereotipi. A partire da quello del bianco che si colora la faccia per apparire nero. Qui il protagonista inizia come un bianco, sposato, discretamente razzista e conformista che lavora per un’assicurazione. In realtà il protagonista, Godfrey Cambridge, una mattina si sveglia per quel che è: un nero. Così comincia a sperimentare sulla sua pelle il razzismo e la discriminazione. Il film non ha successo. Ma Melvin ha capito quel che vuole fare e mette in cantiere la sua rivoluzione: Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Lo scrive, lo dirige, lo interpreta, lo produce, lo monta e ne cura la colonna sonora. Con i 500 mila dollari di budget rimediati, narra di Sweetback, un ragazzo nato in un bordello, e sessualmente dotato, che campa come gigolo e con spettacolini legati al sesso. Ingiustamente arrestato da due poliziotti, quando questi si dedicano al massacro di un membro delle Pantere nere, lui interviene e quello fugge. Da quel momento è scontro aperto tra i neri e i poliziotti e sono questi ultimi a essere fatti neri. Il film è infatti dedicato ai fratelli e alle sorelle che ne hanno piene le scatole della prepotenza dell’uomo bianco. All’inizio il film esce solo in due città, poi il passaparola trionfa. Solo quell’anno incassa 10 milioni di dollari (e recentemente è stato presentato al Festival di New York in occasione del cinquantenario).

DICHIARA a Newsweek Van Peebles in quel 1971 «Tutti i film sui neri, sinora, sono stati raccontati attraverso gli occhi di una maggioranza anglosassone, nei loro ritmi, i loro passi, i loro modi di parlare. Sono stati stemperati per seguire la maggioranza bianca, così come i ristoranti cinesi attenuano l’uso delle spezie per assecondare il gusto americano. Io voglio che i bianchi vadano a vedere Sweetback come fanno con un film italiano o giapponese. Devono capire la «nostra» cultura. Nel mio film, il pubblico nero finalmente ha la possibilità di vedere in campo alcune delle sue fantasie, a proposito di ribellarsi e dare calci nel sedere». Un nuovo pubblico, gli afroamericani sono stati scoperti, infatti di lì a poco Hollywood si appropria dell’intuizione e con Shaft dà inizio alla blaxplotation, con grande disappunto di Melvin. Da allora in poi Melvin ha fatto di tutto: dal ricevere i complimenti dei Black Panthers alla collezione di premi teatrali, dalle collaborazioni con il figlio Mario al broker di Wall Street (diceva che non era diverso dal produrre film). Sia Mario che John Singleton e Spike Lee gli devono molto, ma è la cultura degli afroamericani che con lui ha iniziato a rialzare la testa, prima di essere messa ancora troppe volte sotto il ginocchio di qualche poliziotto assassino.