Ancora oggi si tende a dimenticare che Herman Melville fu narratore in prosa per appena un decennio della sua vita e che, se si fa eccezione per la novella Billy Budd, pubblicata postuma nel 1922, per il resto della sua vita Melville scrisse in versi.

Alla poesia si dedicò con intensità e passione per più di trent’anni, producendo due opere maggiori – una collezione di componimenti sulla Guerra Civile, Battle Pieces and Aspects of the War , e l’imponente Clarel, Poema e Pellegrinaggio in Terra Santa – oltre a raccolte più brevi, pubblicate a sue spese e, come lui stesso scrisse di Clarel, «decisamente destinate a restare impopolari».
Negli ultimi decenni, tuttavia, questi lavori sono stati radicalmente rivalutati e oggi quella di Melville è unanimemente considerata la terza grande voce poetica dell’Ottocento americano. Walt Whitman e Emily Dickinson restano gli indiscussi giganti, ma sulle opere in versi di Melville esistono ormai una quantità importante di studi che ne hanno esplorato sia contenuti e strutture, sia peculiarità tonali e stilistiche che forse solo critici cresciuti dopo la stagione di Eliot e Pound, Stevens e Marianne Moore potevano apprezzare.

In Italia, se si esclude la bella traduzione di Clarel di Ruggero Bianchi per Einaudi, da lungo tempo introvabile, e traduzioni parziali (come quella, sempre di Clarel, di Elémire Zolla per Adelphi) o alcune versioni di singole poesie rintracciabili in antologie, l’interesse per la poesia di Melville è stato relativamente modesto. Tra i non molti che vi hanno prestato costante attenzione, ponendola al centro tanto dei propri interessi di ricerca quanto del proprio insegnamento universitario, Gordon Poole, studioso americano trapiantato in Italia da oltre mezzo secolo, è il più significativo. Dopo aver curato anni fa una traduzione delle poesie di argomento e ambientazione italiana, Melville poeta e l’Italia, Poole offre ora ai lettori, in un volume a sé stante, una versione aggiornata del più celebre di questi componimenti, Napoli al Tempo di Re Bomba (Polidoro, pp. 89, € 12,00).

Nelle dodici sezioni di questo poemetto pubblicato solo dopo la sua morte, Melville ci offre un ritratto inconsueto e affascinante di una Napoli (da lui visitata tra il 17 e il 24 febbraio 1856) sospesa tra le celebrazioni del carnevale e la repressione borbonica dei moti risorgimentali. Attraverso gli occhi del semi-autobiografico vecchio marinaio Jack Gentian, Melville esplora una città che gli restò molto impressa forse soprattutto perché – come nota acutamente Poole nella sua introduzione – qui si poneva in modo emblematico «la questione della tensione fra il piacere e i suoi limiti», tra la celebrata esuberanza partenopea, da un canto e, dall’altro, non solo le minacce naturali del «sulfureo monte» con un «pennacchio di tartareo fumo», che ricordava al poeta l’acconciatura dei Mohawk, ma quella politica del Re Ferdinando II, «coi mortai carichi, le micce accese».

La traduzione, sempre a cura di Poole, della raccolta John Marr e altri marinai (Polidoro, pp. 202, € 20,00) che Melville pubblicò in appena 25 esemplari, tre anni prima della sua morte, è invece una novità assoluta per il nostro paese. Qui la cifra principale è quella della memoria: attraverso i ricordi di vecchi compagni reali o immaginati, lo scrittore rivisita il suo passato, evocando immagini familiari ai lettori delle sue opere più note.

Le traduzioni, impreziosite da alcune eleganti illustrazioni di Cristina Cerminara, sono frutto di un labor limae decennale, intuibile dalle note ai testi e dalle scelte che sono patentemente finalizzate a restituire, anche in italiano, qualcosa del timbro e della cadenza dell’originale. Impresa tutt’altro che semplice.
Come scrive Melville in Bomba, parlando di Virgilio, ma implicitamente della propria poesia, «ogni verso, a ondate successive, / ai metrici confini si ribella, / come i marosi nei mari del Sud / infranti contro l’isola di palme». È forse soprattutto nella consapevolezza di questo scontro tra forma e significato che sta la precoce modernità di Melville poeta.