Lui si chiama Mehran Tamadon, è un regista, è iraniano, vive a Parigi da tempo e in Francia si è sposato e ha deciso di crescere il suo bambino. Ma il suo cinema, per ora, torna in Iran, e quest’ultima volta con in testa un progetto complicato: discutere di libertà individuale e di spazio pubblico e privato insieme ai rappresentanti istituzionali del regime di Tehran. La cosa sembra una bestemmia, difatti riceve solo rifiuti finché non incontra i quattro uomini che saranno i protagonisti di Iranien (presentato nella selezione del Forum): la scommessa è chiudersi nella casa di famiglia in campagna, parlare di temi considerati tabù praticando anche se per pochi giorni l’ipotesi di una società pluralista, nella quale le reciproche differenze possono coesistere. I religiosi portano i figli e le mogli, queste ultime si vedranno pochissimo mentre le due ragazzine e il bimbetto attraverseranno spesso l’inquadratura.

Tamadon aveva realizzato con la stessa «tecnica» il film precedente, Bassidij, una conversazione in forma di alterità tra il regista e i sostenitori più duri della Repubblica islamica. Due mondi opposti, lui ateo, emigrato in Europa, figlio di militanti comunisti sotto lo scià di Persia. Loro estremisti, arroccati a un dogma praticato nella sua declinazione più radicale. Anche qui un incontro impossibile nel corso del quale però proprio questa distanza permetteva di allargare le maglie lasciando affiorare nella visione compatta degli interlocutori «bassidij» contraddizioni inattese. In Iranien Tamadon veste lo stesso abito: l’apparente ingenuità da «straniero», persino goffa nell’eccesso di ottimismo e nella fiducia totale verso la società secolare del paese che lo ha accolto. Nel corso della conversazione i quattro religiosi e il regista, seduti uno di fronte agli altri su splendidi tappeti persiani, assumono un po’ alla volta lo statuto di personaggi in stretto legame con gli argomenti toccati. Il più discreto tra i quattro religiosi si rivela sessuofobo fino all’ossessione; quello più sorridente, e dall’apparenza più disponibile, un amante della buona cucina tanto che indossa il grembiule e si affaccenda nella preparazione della carne arrostita. Il più giovane, che si presenta come il discepolo del religioso anziano, vorrebbe convertire l’occidentale all’Islam, mentre il «maestro», una specie di capo per tutti, è il più radicale nelle argomentazioni con cui rilancia mettendo il regista spesso all’angolo. Tamadon resiste col sorriso agli attacchi degli interlocutori avversari. E alle loro accuse di essere un «fascista» e un dittatore nel suo tentativo di «imporre» l’idea che una società laica e repubblicana permette una maggiore libertà personale di quella religiosa, ride insieme a loro.

Il velo: «Gli uomini sono più facili a cedere alle tentazioni perciò è bene che le donne si coprano». Internet: «Davvero ci sono paesi dove è libero?». La musica: «La voce delle donne è fastidiosa e fa venire pensieri pericolosi».

I religiosi sembrano non crederci per primi alle loro affermazioni. Eppure. Non spettatori li ascoltiamo, e in un primo momento l’impressione di sentire su alcuni punti le prediche dei preti negli anni Cinquanta o degli antiabortisti di oggi sotto a ogni cielo – pensiamo in America gli assalti alle cliniche dove si può abortire degli ultraortodossi. Ma presto è chiaro che non è così. Non solo almeno.

L’Iran è una repubblica islamica dice il religioso. E come tale si devono rispettare le sue leggi. Il regista lancia allora un nuovo gioco: su un tappeto mette le icone che ciascuno di loro sceglierà come proprie. Tra le sue la poetessa Forugh Farrokhzad e Mossadeq, il leader che riuscì a rovesciare lo shah. Per gli ayatollah Khomeini. Ridono e commentano sarcastici: a noi riserva solo questo. Lo stesso accade con le ipotetiche biblioteche. Quella di Tamadon è piena di libri, quella dei religiosi appare più scarna e solo con testi islamici. Pregiudizio di un immaginario occidentale? O provocazione bonaria?

I religiosi mettono fuori campo la poetessa e Mossadeq che odiano. Lo spazio privato è quello pubblico non si ammettono le eccezioni nel rispetto della Repubblica islamica. Ed è qui il nodo della questione, rispetto alla quale i protagonisti di Iranien non lasciano neppure uno spiraglio. Sono agguerriti, e ogni dichiarazione dell’interlocutore laico riescono a rovesciarla a loro favore. Perché loro sono il potere, a differenza dei bassidij che ne sono semplici esecutori o sostenitori fedeli. Sono coloro che gestiscono le leggi, e come tali possono mostrare il sorriso di un volto bonario e amichevole, di una battuta che ci strappa simpatia nonostante la diffidenza salvo poi che il regista l’indomani sarà bloccato all’aeroporto, e potrà tornare in Francia dopo un mese con il divieto di rientrare in Iran perché allora non lo faranno più andare via.

A quel punto comprendiamo anche la gentilezza un po’ naif di Tamadon che si rivela invece un’arma assai efficace per mostrare a distanza ravvicinata il funzionamento del potere, il suo meccanismo violento di repressione e ingiuria. Che sia religioso o meno è un fattore che passa in secondo piano, la religione cioè è senz’altro uno strumento efficacissimo, capace di fare leva sulle frustrazioni più viscerali, ma in funzione di un controllo sociale che è quello messo in atto da ogni regime. Perciò far tacere le opposizioni, le voci dissidenti, censurare i canali di informazione, reprimere ogni contestazione. Massacrare e uccidere, come l’altro giorno il poeta e pacifista Hashem Shaban impiccato brutalmente. O un regista come Jafar Panahi a cui è stato tolta la possibilità di girare film (e di uscire di casa). Iranien per questo è un film agghiacciante e implacabile, un horror capace di arrivare alla sostanza rendendoci testimoni del potere nel suo esercizio, col quale nessuna dialettica vale, e anzi può essere solo capovolta a suo vantaggio.

Invenzioni. In un festival pieno di «realtà» quasi obbligata in format più o meno virtuosistici – Iranien è un film che invece utilizza un meccanismo in apparenza semplice, la forza della parola e delle sue ambiguità, per disegnare quello spazio che è l’obiettivo di partenza: convivere nella diversità. Ed è nella parola che la sostanza del regime, e il suo funzionamento politico persuasivo prende forma. Senza retorica senza utilizzare artifici a effetto emozionale. Sono le zone oblique del racconto, assenza di eroi e di sentimentalismi a dimostrarsi le più efficaci. Per esempio: è possibile ripercorrere la storia della Romania attraverso una partita di calcio?

Secondo Adrian Porumboiu, arbitro di molti incontri chiave, anche di quello Steaua-Dinamo che tanto interessa al figlio regista Corneliu, una partita vale l’altra. E negli anni i giocatori più famosi e gli incontri indimenticabili vengono offuscati da altri campioni, da altre partite come nell’arte, nel cinema, c’è sempre un nome nuovo che cavalca l’onda del suo tempo.

Ma quelle due squadre erano speciali, una sostenuta dalla polizia segreta, la Steaua, l’altra vicina all’esercito e nel cuore di Causescu, il dittatore rumeno che di lì a poco – siamo nel 1985 – sarà rovesciato. Lo stadio è pienissimo nonostante la neve che cade sempre più fitta aumentando durante il match- The Second Game – Forum – è un film sorprendente. Forse a chi – come me – poco sa di calcio sfugge qualche metafora, ma poco importa. La sua forza è il dispositivo che Porumboiu mette in atto: una conversazione fuori campo, e in differita, sulle immagini di quella vecchia partita, intervallo compreso.

Il padre racconta al figlio i tentativi di corruzione prima del match, ogni squadra voleva vincere, e lui che ne riferisce subito alla commissione sportiva. Adrian è un arbitro dei suoi tempi, per esempio applica la regola del vantaggio senza fischiare quando un giocatore è in azione, una cosa spiega che oggi non funziona più. Non ci sono apparecchiature elettroniche a sostenerlo ma i suoi collaboratori, e si puo anche sbagliare come nota in certi momenti. Sul campo la tensione è forte, ogni tanto le telecamere della televisione di stato inquadrano la folla per non far vedere le scazzottate tra i giocatori. Nella conversazione tra padre e figlio, i singoli dettagli della partita si trasformano genialmente in una riflessione sull’epoca, e sul presente, su calcio e politica, su star system e censura.

Porumboiu porta il suo dispositivo – come del resto Tamadon in Iranien – fino in fondo, e prova a immaginare le variazioni del caso: la partita sarebbe stata la stessa se non nevicava? E cosa sarebbe accaduto in caso di un risultato diverso? Suona il telefono, la registrazione del match viene fermata per un attimo, poi si riprende su questo o quel giocatore, su Ceausescu, sulla lotta interna speculare a quella delle due squadre_ «Erano anche qui comunisti contro comunisti» commenta il padre del regista. E poi si parla della neve, del terreno di gioco, del risultato, la Steaua che abbandonò il campo per un gol annullato decretando così la vittoria della Dinamo. Il commento all’incontro oggi apre dunque vie impreviste. E nella grana di quelle immagini rivela ciò che è rimasto oscuro ai bordi delle inquadrature. Un alternanza di passato e presente e una riflessione sul tempo delle immagini. Geniale.