Il governo ha accolto un ordine del giorno del deputato Giorgio Trizzino (ex-5 stelle oggi nel gruppo misto) che potrebbe frenare la presenza in TV di medici, virologi e esperti impegnati in prima persona nella lotta alla pandemia. Se l’ordine del giorno si trasformasse in una norma – fatto piuttosto raro – i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche e private dovranno astenersi da «dichiarazioni pubbliche, commenti o giudizi pubblici che possano andare a detrimento del prestigio e dell’immagine della struttura sanitaria» e dai «rapporti con i media, salvo che ne siano direttamente incaricati o autorizzati». Sarebbero dunque Asl e ospedali a autorizzare di volta in volta l’intervento di medici e scienziati impegnati in prima linea. L’odg di Trizzino va anche oltre il bavaglio agli esperti e chiede al governo di intervenire affinché i «cosiddetti divulgatori scientifici» non contribuiscano «a diffondere comportamenti non corretti ovvero pericolosi». Nobile proposito, se non fosse che l’unico strumento per attuarlo è la censura dei media.

Di «bavaglio» e «proposta liberticida» parla Matteo Bassetti, infettivologo dell’ospedale San Martino di Genova e uno dei camici bianchi più presente in televisione. Massimo Galli dell’ospedale «Sacco» di Milano, altro habitué degli studi televisivi, parla di «censura preventiva». «Un diktat fuori luogo» per Francesco Menichetti che però, come Galli, è prossimo alla pensione e ironizza: «dal primo novembre mi possono chiamare a tutte le ore del giorno e della notte». Contro l’infodemia, un altro ospite fisso delle reti tv come Fabrizio Pregliasco lancia l’idea di una «Carta che contenga modalità e principi per la divulgazione di notizie scientifiche», e che impegni esperti, giornalisti e opinionisti a garantire eticità e correttezza delle proprie affermazioni. «Il rischio – paventa l’esperto – è che facciano sparire i virologi che hanno studiato, continuando a far parlare gli altri».

Se è vero che i medici vengono ormai interpellati anche su temi che non sono di loro strettissima competenza, la possibilità di esprimersi liberamente ha anche permesso all’opinione pubblica di conoscere realtà sgradite a chi ha avuto la responsabilità di gestire l’emergenza pandemica. Successe ai rianimatori dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo quando, sul sito del prestigioso New England Journal of Medicine, rivelarono a marzo 2020 lo stato disperante in cui si trovavano ad operare durante la prima ondata. Alla loro testimonianza, che fece il giro del mondo, i massimi dirigenti della sanità bergamasca risposero piccati sui media minimizzando l’impatto del coronavirus sulla sanità lombarda e provando (invano) a smentire i loro stessi medici. Con l’odg Trizzino la censura sarebbe stata più efficace.

Anche lo stesso Massimo Galli entrò in conflitto con la sua struttura sanitaria quando in febbraio rivelò che il suo reparto era «invaso dalle varianti». L’ospedale dapprima smentì il suo primario, ma poche settimane dopo le terapie intensive di tutta Italia erano di nuovo sature e la realtà diede ragione al medico.

Negli ospedali privati le testimonianze scomode dei medici sono entrate in conflitto con le strategie aziendali. È accaduto persino a Roberto Burioni: quando il 10 novembre 2020 il medico denunciò la situazione insostenibile del pronto soccorso del San Raffaele di Milano, la direzione sanitaria intervenne pubblicamente a smentire il virologo più famoso d’Italia. Ma aveva ragione Burioni: pochi giorni dopo quello scambio, l’Italia toccò il picco di mortalità dall’inizio della pandemia, con quasi mille morti al giorno.