Statalizzare i medici di base: è questa una delle proposte, forse la più radicale, che avanzano le Regioni per riformare la sanità territoriale. L’idea è contenuta in un documento stilato dagli assessorati regionali alla salute e reso pubblico ieri dal sito Quotidiano Sanità. Secondo la Costituzione, proprio alle Regioni spetta l’organizzazione dei servizi sanitari. La loro presa di posizione, dunque, conta moltissimo.

I SERVIZI SANITARI DI BASE si sono rivelati l’anello debole della risposta alla pandemia. La condizione di liberi professionisti abituati a far da sé, per i medici di base si è trasformata in estrema fragilità.

«Il contributo in termini di vite umane fornito dalla medicina generale e sul quale il Ssn riconosce il valore del sacrificio – scrivono le Regioni – è stato soprattutto dovuto a un modello che non era in grado di fornire strumenti, spazi e organizzazione adeguati in termini di sicurezza e di indicazioni operative per questi professionisti. La medicina di famiglia ha mostrato estrema debolezza laddove interpretata in modo isolato e ha saputo riorganizzarsi in modo resiliente, laddove erano presenti forme associative in grado di supportare i singoli, rafforzando l’operatività e il sostegno formale informale».

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dedica circa dieci miliardi di euro a una profonda revisione delle cure primarie, con la realizzazione di 1.288 «case della comunità», senza specificare chi e come si dovrà lavorare in questi centri di assistenza sanitaria di base. Per rafforzare il collegamento dei medici di base con Asl e distretti, secondo le Regioni una via possibile è trasformare le convenzioni in un rapporto di dipendenza pubblica. I medici diventerebbero così impiegati dello stato, con orari e sedi di lavoro imposti per legge. Ma anche le tutele a cui un libero professionista non è abituato.

Questo, nel progetto delle regioni, permetterebbe di aggregare i medici di base in organizzazioni più grandi e strutturate, in grado di svolgere anche attività diagnostica di base.

I vantaggi secondo le Regioni: «Collocazione organica in un modello organizzativo omogeneo su tutto il territorio nazionale, con garanzia di inserimento dei medici di medicina generale nelle strutture come ora definite anche dal Pnrr».

D’altro canto, l’internalizzazione dei medici richiede anche una revisione normativa non facile da realizzare in tempi brevi. Una riforma di questo tipo è quanto chiede da tempo l’Intesa sindacale, la coalizione dei medici di base che fa capo ai sindacati confederali, che però nel settore sono nettamente minoritari.

NON È L’UNICA POSSIBILITÀ presa in considerazione dalle Regioni. Tra le ipotesi c’è anche il doppio binario, che permetterebbe ai medici già in servizio di mantenere la propria autonomia e a quelli nuovi di essere reclutati nel nuovo regime di dipendenza. Oppure l’accreditamento non dei singoli medici, ma di gruppi di professionisti associati in soggetti giuridici autonomi, sostanzialmente nello stesso modo con cui è regolato il rapporto tra sanità pubblica e gli ospedali privati.

«Significa aprire le porte ai privati» sostiene Pierluigi Bartoletti, vice-segretario nazionale della Fimmg, la sigla che riunisce circa il 60% dei medici di base e che da sempre difende il modello basato sulla libera professione. «I medici di base non sono morti perché la sanità territoriale non funziona, ma perché mancavano le mascherine perché il governo non aveva pensato a acquistarne per tempo. Dunque siamo pronti a discutere di tutto, senza pregiudizi, ma è scandaloso che si dia la colpa a noi se il sistema non ha retto».

E il modello delle case della comunità? «Ci perderà il cittadino, che invece di trovare il medico vicino casa dovrà rivolgersi a questi “casermoni” che risulteranno inevitabilmente meno accessibili». Le aggregazioni di medici esistono già, spiega Bartoletti: «Se però si vuole discutere di come garantire un servizio sanitario uniforme, garantendo che tutti i medici di base offrano gli stessi servizi, noi siamo favorevoli».