Ad aprire la strada è stato Mario Sabatelli, dirigente del reparto di neurologia al Policlinico Gemelli di Roma: «Noi abbiamo già praticato la sospensione del trattamento con il consenso informato a pazienti sottoposti alla ventilazione non invasiva: stiamo facendo il bene dei pazienti». Si spinge oltre, contribuendo a sollevare il velo di omertà che tuttora aleggia sulle corsie ospedaliere, Giuseppe Maria Saba, ex ordinario di Anestesiologia e Rianimazione all’Università di Cagliari e alla Sapienza di Roma: «L’eutanasia è una pratica consolidata in tutta Italia, ma per ragioni di conformismo non se ne parla. Gli unici che alzano la voce sono gli esponenti di frange dell’estremismo cattolico rigido e confuso. Parlo ora perché non ne posso più del silenzio su cose che sappiamo tutti». Anche il neuropsicofarmacologo Gian Luigi Gessa ha confermato la versione di Saba: la sua affermazione ha suscitato il più vibrante negazionismo. «I cattolici sostengono legittimamente che l’eutanasia non è lecita perché ritengono che Dio sia il padrone della nostra esistenza. È vero che qualche medico cattolico talvolta aiuta Dio, che ha tanto da fare, a staccare la spina».

Non solo le testimonianze dei «medici coraggio», ma anche dati raccolti da importanti istituti. Secondo una ricerca condotta nel 2002 dalla Cattolica di Milano, da 20 unità di terapia intensiva della città emerge che 4 medici su 100 hanno somministrato ai pazienti farmaci letali. Nel 2007 arriva invece lo studio dell’Istituto Mario Negri, il quale stima in 20mila i casi di pratiche eutanasiche ogni anno.

Il moltiplicarsi dei segnali che arrivano dalla società, che si aggiungono all’invito esplicito del Capo dello Stato ad affrontare il tema del fine vita, confermano l’urgenza di un dibattito parlamentare già richiesto da oltre 70mila cittadini. Le difficilissime condizioni nelle quali sono chiamati ad operare i medici – chi aiuta un malato terminale a morire rischia fino a 12 anni di carcere -, rendono necessari provvedimenti legislativi. Magari partendo, come in Olanda e recentemente in Quebec, dall’avvio di un’indagine conoscitiva sulla «morte all’italiana». Questa, già richiesta nel 2006 da Piergiorgio Welby, fotograferebbe la realtà odierna del fine vita raccogliendo informazioni su come le scelte individuali di pazienti e medici influiscono sul processo del morire. Non si chiede una decisione ideologica. Si chiede anzi di capire, di conoscere per dibattere e deliberare.