Trieste 1768: Winckelmann privato è il felice titolo di un bel volume a cura di Maria Carolina Foi e Paolo Panizzo per le edizioni dell’Università di Trieste (EUT, pp. 325,euro 22,00). Esso chiude idealmente il lungo biennio di celebrazioni italiane e costituisce uno dei più importanti contributi nella lunga catena di studi che ha accompagnato tra il 2017 e 2018 il doppio giubileo del celebre archeologo e storico dell’arte. Riunisce gli atti dell’omonimo convegno organizzato a Trieste nel giugno 2018, esattamente 250 anni dopo la tragica morte di Winckelmann. Come il convegno, il libro è centrato sugli aspetti privati della persona e dell’opera, quali emergono soprattutto nell’ultima fase di vita e sul processo che seguì al suo assassinio. L’uomo ucciso a Trieste nel giugno 1768 si trovava nel porto giuliano in attesa di un imbarco per Ancona con meta Roma; viaggiava in incognito e solo alla fine confessò la propria identità di Sovrintendente alle antichità di Roma e scriptor della Biblioteca Vaticana.
Questo libro che cerca il privato di una vita eccezionale e di una morte così tragica affronta un groviglio di problemi individuali e storici. Lo fa tentando di focalizzare soprattutto luoghi, comportamenti ed eventi degli ultimi giorni a Trieste senza tuttavia rinunciare a indagare in altre possibili direzioni, laddove si possano vedere riflessi di un soggetto in continua tensione e metamorfosi, dominato dal desiderio di bellezza e di verità, consapevole del proprio valore ma sempre costretto a misurarsi con difficoltà di ogni genere.
La prima sezione Processo al processo ospita studi di discipline diverse, dal diritto alla numismatica, dalla museografia alla germanistica. In apertura il giurista Mathias Schmoeckel prende in considerazione il processo all’assassino Francesco Arcangeli in quanto grande evento di risonanza europea, rileggendone gli atti sullo sfondo dei tentativi settecenteschi di riforma del diritto. A suo parere il processo penale si svolse secondo i canoni previsti dall’ordinamento absburgico, ma la sua eco fu subito enorme soprattutto per la notorietà della vittima; le notizie dell’omicidio, del processo e della condanna del colpevole sulla pubblica piazza, infatti, ne fecero un caso così clamoroso che anche oggi, secondo l’autore, può essere visto sulla linea delle grandi cause celebri inaugurata dal Pitaval. Un’eco tanto vasta da influire fatalmente sulla ricezione della vita e dell’opera di Winckelmann e nello stesso tempo destinata a disperdersi in una miriade di dettagli che avrebbero reso fin dall’inizio difficile l’individuazione del movente dell’assassinio.
Mentre dunque il giurista Schmoeckel dilata il quadro generale del processo e guarda più alla sua ricezione, il numismatico Bruno Callegher restringe il campo d’indagine ed entra nel cuore della discussione sul movente del delitto, battendo una strada del tutto inedita: quella dell’effettivo valore delle monete e delle medaglie trovate in possesso di Winckelmann al momento della morte. La sua precisa analisi dei materiali permette di dire prima di tutto che quelle monete costituivano un bene cospicuo sul piano economico, tale da motivare ampiamente la versione del furto; non solo, anche sul piano iconografico esse presentano una singolare simbologia di tipo massonico, che ha potuto sostenere e indirizzare la ricerca del movente verso ambienti potenzialmente interessati alla scomparsa di Winckelmann.
Gli studi che seguono in questa prima sezione riguardano la fase della lunga elaborazione del lutto nella città che il delitto aveva portato di colpo alla ribalta internazionale. Il ‘privato’ di Winckelmann viene così cercato soprattutto nell’opera di Domenico Rossetti, il giurista triestino che si fece interprete delle conseguenze morali e culturali dell’assassinio e studiò con rigore ed empatia i movimenti della vittima nella città giuliana, le modalità e le circostanze della sua morte.
Si deve alla germanista Giulia Cantarutti il lungo saggio che porta qui a una rivalutazione piena di Rossetti, da lei giustamente considerato una pietra miliare nella storia della ricezione di Winckelmann, anche fuori d’Italia. Dalla documentata indagine emerge, infatti, il profilo non di un erudito qualsiasi, ma quello di un uomo con una formazione giuridica di livello europeo, con una conoscenza diretta dei testi e delle fonti bibliografiche italiane e tedesche, con una visione coerente degli eventi e capacità di concettualizzazione. Nella rivalutazione di Rossetti Cantarutti si spinge a lodarne perfino lo stile, compresi i più difficili neologismi dallo stesso di volta in volta coniati per colmare presunti vuoti lessicali della lingua italiana. Forse sarà difficile rilanciare l’opera del Rossetti sul piano del linguaggio, perché proprio le scrupolose «stipulazioni disciplinari» e le doti che Cantarutti gli riconosce sono state verosimilmente le stesse che hanno rallentato e ostacolato il processo di conoscenza della Monografia di Giovanni Winckelmann, subito tradotta in tedesco. In ogni caso è questo il lavoro oggi più attendibile e più completo sul ruolo del Rossetti, il cui profilo viene completato e arricchito da due rilevanti studi di questa stessa sezione: il primo della storica dell’arte Laura Carlini Fanfogna che ricostruisce in maniera limpida le vicende che lo videro protagonista nell’ideazione e nella costruzione del cenotafio in memoria; il secondo di Rossella Fabiani che mette in evidenza un altro grande merito del Rossetti, quello di aver dato vita a quella gloriosa Società di Minerva, alla quale dobbiamo la pubblicazione degli Atti del processo. Proprio quegli atti che, curati da Cesare Pagnini nel 1964, avrebbero dato nuovo impulso alla ricerca winckelmanniana, definito il profilo dell’assassino, disegnato l’ambiente triestino del tempo e mostrato perfino le potenzialità narrative dell’intero procedimento penale.
La seconda sezione del libro si intitola espressamente Winckelmann privato, ma in realtà si apre a indagini molto più ampie. Come fa per prima Elena Agazzi, che rovescia la celebre definizione di Winckelmann quale «homo vagus et inconstans» e mette in rilievo i tratti di una personalità forte quale si era manifestata fin dall’inizio nella resistenza all’ambiente di Seehausen e nella determinazione a farsi cattolico. Risalta così non l’incostanza, ma la costanza di un progetto di vita, etico ed estetico; mentre doppiezza e opportunismo sono ricondotti piuttosto alle necessità imposte dai diversi ambienti nei quali Winckelmann si era trovato a vivere, tra assolutismo, mecenatismo e mondo erudito. Anche nelle oscillazioni della scrittura e nel passaggio tra il lavoro di tipo classificatorio a quello della narrazione dei contenuti allegorici delle opere antiche Agazzi vede riflessi di un’unità di fondo e di una sostanziale appartenenza a una ideale repubblica del sapere, dentro la quale potevano ricomporsi le infinite ambiguità, le contraddizioni, l’inesausto desiderio di conoscere e di vedere.
Tra queste ambiguità, spicca da sempre l’omosessualità dell’archeologo. Come già Markus Käfer che nel suo studio sostiene la piena coscienza storica del problema e la gestione consapevole del proprio orientamento sessuale, anche Michele Cometa si avvicina con naturale cautela a questo tema antico della ricerca sviluppando, all’interno di un filone di studio relativamente recente, una propria riflessione sulla dimensione androgina dell’estetica winckelmanniana. Secondo Cometa Winckelmann usa categorie fluttuanti e metamorfiche e tocca il vertice della sua estetica nel modello geometrico della convessità, così come lui stesso l’aveva definita nei Monumenti antichi inediti (I, p. 38): una «dolce convessità d’ambi i sessi» quale metafora dell’interazione e reciprocità del maschile e del femminile. Anche Cometa porta il discorso sulla pulsione omoerotica di Winckelmann ben oltre il piano esistenziale e privato.
Un aspetto non minore del Winckelmann privato è affrontato da Max Kunze in un originale studio sulla relazione tra l’uomo e i suoi abiti. Per chi conosce il lungo epistolario che accompagna la breve vita dell’archeologo, infatti, il saggio suona come una conferma del carattere intimamente vanitoso della persona. Una vanità che va di pari passo con una profonda avversione per l’abito del precettore, più volte sentito come segno di un’appartenenza di classe e strumento di costrizione del corpo; un’avversione che a ragione viene letta anche come riflesso di quello stesso spirito di libertà che lo aveva spinto a Roma dove peraltro fu costretto a indossare abbastanza spesso l’abito dell’abate cattolico.
Le oscillazioni fatali tra pubblico e privato, tra libertà e convenzione, tra desiderio e rimozione sono al centro del denso saggio di Fabrizio Cambi che cerca e documenta soprattutto nelle lettere il filo che lega e legittima comportamenti tanto contrastanti. Il suo pacato studio chiude degnamente questa sezione richiamando con nuove connessioni quella miniera di dati che è l’epistolario di Winckelmann.
La terza sezione è quella apparentemente più omogenea nel senso che tutti i contributi indagano il privato di Winckelmann così come si riflette nelle opere letterarie che a lui si sono ispirate nel tempo. In realtà si tratta di un fenomeno ricettivo assai diseguale che interessa sia la letteratura tedesca che quella italiana e che comincia a manifestarsi tra Otto- e Novecento, vuoi in testi di in prosa, in versi e anche in quelli teatrali. Il nucleo propulsivo comune è senz’altro il tema della morte e dell’assassinio di Winckelmann che continua ad alimentarsi di memorie e di carte processuali, dalle quali si sprigiona evidentemente un inesauribile potenziale mitopoietico. Il tema del crimine è sempre in primo piano, accanto a quello della crisi personale di Winckelmann durante il viaggio di ritorno in Germania, mentre si registra un’attenzione molto minore per il ruolo di padre fondatore dell’estetica classica. Costituisce un caso abbastanza isolato il tema svolto in un noto testo di Max Kommerell del 1929: quello di un Winckelmann degradato a rianimatore dell’antico e disconosciuto come maestro dell’eredità classica, vittima di presunta predisposizione personale al martirio; una tesi questa che documenta piuttosto le difficoltà paradossali della lettura di Winckelmann all’interno della cerchia di George.
Dispiace di non potere riferire qui su tutti gli autori e i testi di questa densa sezione che ben documenta le linee principali della mitografia winckelmanniana, dalla letteratura al teatro e al cinema.
Il libro che nel suo insieme è davvero il migliore omaggio che si potesse rendere alla memoria di Winckelmann, si chiude con uno studio di grandissimo interesse. Si tratta di un appassionato ritorno sui luoghi che furono teatro degli eventi vissuti da Winckelmann nel breve soggiorno triestino, accompagnato da un affascinante apparato iconografico e urbanistico. Ne è autrice e coordinatrice Maria Carolina Foi che, seguendo un recente filone di ricerca sulla spazialità ma anche le proprie competenze sul rapporto tra letteratura e diritto, rilegge gli atti del processo come documento storico-linguistico e riesce a fornire una mappatura inedita della Trieste absburgica, italiana e tedesca insieme, còlta nel momento in cui l’evento tragico rese notissimo il nome della città nella quale il Soprintendente alle antichità di Roma attese invano la nave per tornare a Roma.