«Il dialogo tra Africa e Europa è estremamente difficile. Lo dico dal mio punto di vista di africano ma le comunità europee non sanno nulla – e forse neanche per colpa loro – delle altre civiltà. Per questo ci sono ghetti, banlieues, gli africani stanno con gli africani, gli arabi con gli arabi… È una stratificazione sociale costruita ogni giorno. Il razzismo esiste da quando le civiltà europee hanno incontrato quelle africane, un povero francese – come il personaggio del mio film – che dai i quartieri «alti» finisce nelle periferie non ha alcuna possibilità di incontrarsi con gli altri poveri, piuttosto si lascia manipolare dalla destra … Quella della disoccupazione è sempre stata un’arma fantastica, specie oggi con la destra che ne dà la colpa agli immigrati. Troppo spesso si dimentica che i loro padri hanno combattuto per la Francia contro il nazismo, che poi sono stati prelevati nei loro paesi, negli anni ’60-’70 per sostenere lo sviluppo. E siccome ora il capitalismo è in crisi si cacciano i loro figli …».

QUESTO diceva Med Hondo nel 1998, quando lo avevo incontrato a Parigi in occasione dell’uscita (solo francese, in Italia i suoi film a parte i festival non sono mai arrivati) di Watami, autoprodotto, autodistribuito, vietato ai minori di 16 anni forse perché indigesto nel suo bianco e nero poco accattivante e nel modo di raccontare quella Francia attraversata da disoccupazione, odi strumentalizzati, manifestazioni antirazziste, con un flashback nella colonizzazione e nella lotta africana per l’indipendenza intorno alle vicissitudini di due famiglie, una africana sans-papiers, e una francese precipitata nella povertà dopo il licenziamento del padre, ex quadro bancario, subito sedotto dal lepennismo.

FA UN CERTO effetto leggerlo oggi, sono vent’anni fa, un altro millennio, eppure sembrano parlare del presente. Forse poco è cambiato o piuttosto è perché Med Hondo, mauritano, uno dei padri del cinema africano e sguardo radicale di quello mondiale, aveva la capacità e il talento che tutto l’immaginario, almeno quello vivo e radicale dovrebbe avere, di intuire la natura profonda delle cose, di coglierne la sostanza, la geometria in quanto accade e quanto deve accadere, restituendo un sentimento – e un conflitto – sempre contemporanei nel loro essere oltre il tempo.

A PARIGI, dove è morto qualche giorno fa, Med Hondo era arrivato nel 1961, in fuga dal regime dittatoriale che lo perseguitava in patria. Per vivere aveva fatto mille lavori, il cuoco, il portuale, prima di studiare teatro, fare l’attore (anche di cinema con Costa Gavras, Huston e Robert Enrico) e creare una sua compagnia, Griotshango, con cui metteva in scena il miglior repertorio africano e della diaspora antillana, Deprestre, Césaire, Boukman, Guy Menga. Fino alla scoperta del cinema che per lui è stato subito lo spazio in cui dare voce alla critica del colonialismo e alla rivolta, coi primi cortometraggi autoprodotti come Ballade aux sources (’67), Roi de corde (’69) e Mes voisins (’73) .

La sua generazione – era nato Mohamed Abib Hondo a Atar nel 1936 – era quella successiva ai padri fondatori del cinema africano come Sembene Ousmane o Oumaru Ganda che avevano lavorato a ridosso dell’indipendenza dei paesi africani e della decolonizzazione, attorno agli anni ’60, con l’obbligo di usare il cinema come prioritario strumento didattico e informativo in un continente per larga parte analfabeta e dalle mille lingue e dialetti. Lui invece al centro aveva messo la storia del suo continente, lo schiavismo, la lotta armata anticoloniale di fine 800, l’emigrazione degli anni ’50, la diaspora, il razzismo e la repressione nella Francia dove viveva, sognando e lottando per il panafricanismo, la democrazia, per un decollo del continente stritolato invece dal neocolonialismo dopo gli omicidi dei leader progressisti più importanti, da Lumumba a Sankara.

EPPURE e Med Hondo nella memoria rivoluzionaria continuava a crederci, difatti stava lavorando a un progetto su Toussaint Louverture, il grande leader haitiano che per primo ha creato uno stato libero dalla schiavitù.
Soleil O – l’esordio nel lungometraggio, uscito nel 1970 e restaurato grazie alla World Film Foundation di Scorsese – è stato presentato a Cannes Classic due anni fa e proprio sulla Croisette aveva avuto la sua anteprima. «Un attacco durissimo al colonialismo » avevano definito quel film in bianco e nero in 16 e in 35 millimetri, che seguiva un immigrato africano arrivato in Francia, «il Paese dei nostri antenati, i Galli» e umiliato da una società profondamente razzista, perché «il razzismo non s’inventa, soprattutto al cinema. È una specie di mantello che ti mettono addosso, con cui sei obbligato a vivere».

Poi c’erano stati Les Bicots Négres vos voisins (’73), Tanit d’oro a Cartagine; Noi abbiamo tutta la morte per dormire (’77) ; il musical West Indies (’79), presentato a Venezia; il film epico coproduzione interafricana, Sarraounia (’86), Yennenga d’oro a Ouagadougou; Lumiére noire (’94) ; Watani (’98) fino a Fatima, l’Algérienne de Dakar (2000).

IN FRANCIA lo conoscevano però più per la sua voce che doppiava Eddie Murphy, Morgan Freeman, Richard Pryor. O Rafiki in Il re Leone e l’asino di Shrek. «Quando si doppia bisogna guardare l’attore negli occhi – diceva Med Hondo – perché anche il doppiaggio significa recitare».