Politica

Md: «Bene il nuovo processo penale. Ma serve anche un’amnistia»

giudicifoto Andrea Sabbadini

Congresso di Firenze Al primo giorno di assise, emergono i dubbi sulla riforma del Csm e il no alla separazione delle carriere. Lectio magistralis di Luigi Ferrajoli

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 10 luglio 2021

«Amnistia». La parola viene pronunciata, quasi sottovoce, dal giudice torinese Andrea Natale. Ed è certamente la parola più «scandalosa» che risuona nel Palazzo dei congressi di Firenze durante la prima giornata delle assise di Magistratura democratica, nella quale a tenere banco è stato il tema delle riforme.

Il giudizio sui cambiamenti proposti dalla ministra della giustizia Marta Cartabia in materia penale, frutto del lavoro della commissione guidata dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, è positivo: il segno è garantista, il carcere diventa extrema ratio, si introduce la «giustizia riparativa». Tutto è pienamente in linea con la cultura di Md.

Ma c’è un «ma», sottolineato da Natale: «Il rischio vero è che le novità nascano con una zavorra, per questo servirebbe un’amnistia». I tanti, troppi, processi per reati minori, anche legati al conflitto sociale, che oggi ingolfano i tribunali andrebbero eliminati, liberando quindi risorse ed energie per la fase del processo penale rinnovato. Difficile, però, che una misura del genere si concretizzi: serve la maggioranza dei due terzi nelle camere, senza il consenso di Lega e 5S – il loro «no» è scontato – i numeri non ci sono.

Toni più dubbiosi, invece, sui progetti di modifica del Csm avanzati dall’altra commissione istituita da Cartabia, quella presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani.

A farsi portavoce delle preoccupazioni è la gip milanese Ezia Maccora, consigliera a Palazzo dei Marescialli fra il 2006 e il 2010, al tempo della riforma Mastella. La riduzione dell’organo di autogoverno a mero ente amministrativo e burocratico, e un sistema elettorale «anti-correnti» che ne deprima la rappresentatività sono ciò che Md vuole evitare: «Meglio il proporzionale per lista che le candidature individuali».

Altro tema-chiave, la concezione della dirigenza. Per Maccora deve essere «un servizio e non uno status», e quindi sarebbe auspicabile che gli incarichi di direzione degli uffici giudiziari siano rigidamente limitati nel tempo: dopo otto anni alla guida di una procura o un tribunale si dovrebbe obbligatoriamente tornare a fare il magistrato «semplice». Oggi non è così, e le proposte della commissione Luciani – questa la tesi – migliorerebbero la situazione, ma non risolverebbero davvero il problema della corsa ai posti «di potere».

Decisa ostilità, invece, sulla separazione delle carriere. In questo caso la proposta non è del governo, ma di una parte della maggioranza.

La Lega ne ha ormai fatto una bandiera, è l’oggetto di uno dei referendum sui quali sta raccogliendo le firme insieme ai radicali. «Il pubblico ministero deve restare il primo garante dei diritti dell’imputato, non deve diventare “l’avvocato della polizia giudiziaria”», riassume Stefano Musolino, lui stesso pm in forze alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. «Attenzione all’eterogenesi dei fini: si sbandiera la giustizia giusta, ma chi vuole la separazione delle carriere è il partito che difende le politiche più repressive e securitarie».

Di diverso avviso è il presidente dell’Unione delle camere penali Giandomenico Caiazza, chiamato a discutere con Musolino, «nella tradizione di dialogo amichevole e rispettoso fra le nostre associazioni». Per il leader degli avvocati penalisti la separazione delle carriere servirebbe a risolvere «il vero nervo scoperto: l’appiattimento di troppi gip sulle posizioni dei pm, dimostrato dal fatto che vengono sempre accolte le richieste di proroga delle indagini».

In apertura dei lavori la lectio magistralis di Luigi Ferrajoli, maestro indiscusso del garantismo penale, ma anche ex magistrato e fra i membri del nucleo originario di Md della fine degli anni Sessanta. Da lui è venuta una difesa appassionata del valore delle associazioni delle toghe: l’Anm e le sue articolazioni interne «hanno realizzato l’uguaglianza fra i magistrati e sono state uno stimolo all’impegno civile per l’attuazione della Costituzione». Nessuno nega le degenerazioni svelate dal caso Palamara, «ma chi sciolse l’Anm e non consentì la libera associazione fra i giudici fu il regime fascista nel 1925». Meglio non dimenticarselo.

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