Rumorismo puro in avvio. Joe McPhee alla pocket trumpet, Chris Corsano alle parti metalliche della sua normale batteria. Oltre Bill Dixon il settantacinquenne polistrumentista americano (nero). Non orientato verso un Paul Lytton, mettiamo, ma verso il lascito degli elettronici d’uso sofisticati il quarantenne percussionista americano (bianco). E val la pena di dire che tutti e due dimostrano vent’anni di meno.

Poi appare lo spirito del free, oltre il free, nell’ultra-free, in un esempio di rinnovamento radicale, puntillista e proteiforme, del free. McPhee e Corsano in duo all’Area Sismica di Forlì, cenacolo cordiale/illuminato di musiche extraordinarie (termine loro, dei formidabili forlivesi). I due musicisti hanno suonato ieri anche al Circolo Dal Verme di Roma.

McPhee alla pocket trumpet è un portento. Carriera lunghissima, si potrebbe supporre al termine. Macché. Mai sentito così avant-garde. Ma con quell’anima calda, quella sua emozionalità giocata allo scoperto. Anche Corsano, che sulla carta è un musicista multidisciplinare, si situa nel jazz, s’intende nel jazz fuori dagli schemi della sua pur scapestrata tradizione. Nuovo brano. Al sax contralto – un decorativo strumento di plastica dipinto di bianco – McPhee è più melodioso, con certe linee dolci di suoni che lo collegano al cantabile (spesso) Ornette Coleman.

Ma è subito classico free agitato. L’uno e l’altro immagazzinano in un lampo tutto Cecil Taylor (con Jimmy Lyons al sax…), tutto Giuseppi Logan, tutti (o quasi) Albert Ayler e Archie Shepp degli albori.
Li trasformano nella forma di jazz – perché questo è jazz, nient’altro che jazz, orgogliosamente jazz – che oggi si dimostra vitale, aperto, propulsivo, amabile, sovversivo, incoraggiante. Come è pulito il turbinoso dialogo dei due! Così complesso, così disarmonico, e così nitido. Passionale/razionale, voluto così, pensato così, elaborato in questo preciso modo nel bel mezzo di un tributo fervido all’improvvisazione totale. Corsano in solo. Da Elvin Jones a Tony Oxley passando per Sunny Murray.

In un nuovo brano McPhee al sax soprano è ancora diverso. Suona una melopea che viene «da terre lontane» e da vicinissimi territori desolati dell’inquietudine amorosa. Fa pensare a un certo punto al Lol Coxill di The Joy of Paranoia (1978) che improvvisava in rock/blues flessuoso e ti dilaniava il cuore (rimpianti? desideri impossibili?). Ma McPhee va subito altrove. Se si vuole continuare con gli accostamenti, con le esperienze rivissute, lui viene a trovarsi ben presto accanto all’Evan Parker di Monoceros (1978), iterazioni e lucide esplorazioni siderali.

Torna la pocket trumpet. Ora McPhee diffonde suoni cavernosi lunghi, poi estende il grave cavernoso al fraseggio nervoso, tipo vocalizzo. È strabiliante come questa forzatura del timbro e del registro e questo fraseggiare psicotico/viscerale siano esposti con assoluto tono di serenità. Questo è il McPhee di oggi. Nel gergo della critica si direbbe il Mc Phee della maturità.

Gli si potrebbe rimproverare l’abitudine troppo puntuale di sperimentare modi di intendere la musica sempre diversi a seconda dei diversi strumenti che usa. Per il duo è però il momento del clou del concerto. Una sorta di doppio soliloquio relazionale (forse uno dei migliori modi di fare coppia). Atmosfera di raccoglimento. McPhee al soprano a mezza voce con iterazioni irregolari non ossessive, mentre Corsano suona un continuo soffice sul tom-tom e lo integra con curiosissimi battiti in pianissimo. Forse l’idioma di entrambi non è del tutto personale ma l’opera è un gioiello.