Eugene McCown, “L’Espagnole”, 1924, collezione privata

Il 14 marzo del 1925, nella galleria L’Effort Moderne al 19 di rue de la Baume, gerente Léonce Rosenberg, la comunità artistica di Montparnasse si dà appuntamento per il vernissage della mostra di uno fra i 45.000 americani di stanza a Parigi: si tratta di un pittore ancora sconosciuto al pubblico ma già introdotto nell’ambiente se fra i convenuti di riconoscono André Gide, Gertrude Stein, un elegantissimo Jean Cocteau oltre a René Crevel, autore di punta del surrealismo che risulta essere l’amante in carica del festeggiato, un ragazzo del Missouri di ventisette anni nella cui vistosa bellezza si mescolano la liquida ingenuità dello sguardo e una fisica dirompente sauvagerie.

Costui si chiama Eugene McCown, è a Parigi da tre anni e suona jazz al pianoforte in un locale alla moda, Le Boeuf sur le Toit, dove pure lo nota una sera Erik Satie. Ma la sua formazione è di artista figurativo (in patria ha frequentato i corsi della Modern School of Art) come dicono i disegni a matita (per esempio il ritratto di Crevel che compare in frontespizio a Détours, appena uscito) e la dozzina di tele esposte fra cui spicca, nei suoi tratti spigolosi per non dire apertamente neocubisti, l’olio che ritrae in postura androgina Nancy Cunard, l’ereditiera americana che di McCown rimarrà un’amica sempre soccorrevole e, nei primi tempi almeno, una generosa committente.

Se il ritratto di Cunard oggi è all’Università di Austin, appartengono a collezioni private le due grandi tele che meglio riflettono l’acerba fisionomia di McCown, Oasis e La Siesta, l’una del ’24 e l’altra dello stesso 1925: nella prima quattro nudi maschili di giovani si allacciano e accennano un girotondo all’interno di una radura che richiama in termini iperrealistici la voga incipiente del Jungle (Duke Ellington sarà un mito dell’artista-pianista), nella seconda su un medesimo fondale si adagiano, in posa convergente e simmetrica, ancora i corpi di due giovani maschi i quali si somigliano alla stregua di gemelli, nudi e abbronzati, lo sguardo languido e i pettorali spiccatamente rilevati.

McCown si direbbe qui un temperato modernista, un pittore restio alla dura fissità dei timbri e invece portato alla morbida gamma dei toni, dove i corpi giovanili, la cui luce bronzea procede silenziosamente da un fondo d’oro, sono accolti nel silenzio verde del fogliame la cui consistenza tradisce alcunché di altrettanto carnale. Perdutamente innamorato di lui, geloso delle sue spietate seduzioni, Crevel in un biglietto pubblicato nella «Little Review» ne parla come di un peintre ingénu, la cui ingenuità corrisponde a una quota necessaria, ma non ancora prevalente, di epigonismo o comunque di eclettismo: nel qual caso è chiara l’impronta di Rousseau il Doganiere, esplicita nella accuratezza di fondali verde cupo che rinviano a un umido intrico da savana e all’eterno stillicidio delle piante grasse.

Pare che Rosenberg abbia plagiato il Tout Paris ed esaurito l’offerta ma nessuno sospetta che il talento di McCown in realtà si va esaurendo, pure se un critico d’arte parla a mezza bocca di cette absence de style propre. Si è intanto consumata una drammatica rottura con Crevel di cui dà testimonianza La morte difficile (’26), l’autobiografico romanzo di formazione in cui Eugene è divenuto «la pantera, il felino transatlantico», un infido teppista, un gigolo portato all’ozio più parassitario e allo sfruttamento sistematico degli amici, dunque non un artista ma una semplice machine-à-plaisir e, lo definisce sprezzante il suo amico, une petite putain dagli amori sbandati o infine, come fosse la più sfacciata tra le cortigiane, Coconotte: ma al di là del risentimento di Crevel, la seconda mostra parigina da Théophile Briant nel ’29 e un’ultima, nel novembre del ’31, alla Galerie Vignon, nonostante il generoso accredito di Waldemar George rivelano uno scadimento verticale e, oramai, una assenza di ispirazione tanto più sorprendente in colui che d’acchito era stato pupillo di Rosenberg: a osservare le riproduzioni, si tratta per lo più di sinopie o di quadri tirati via, dal segno incerto, vistosamente illustrativo (e infatti vi prevalgono richiami e omaggi di maniera al De Chirico allora più vulgato e scenografico). Ultimo colpo di coda di una vicenda artistica che ha del meteoritico, bruciata in soli cinque anni, è l’inclusione di due tele di McCown (ancora scampoli di Montparnasse, tuttavia) in una collettiva del 1930 accolta nell’appena inaugurato MoMa di New York.

La sua parabola si è chiusa con quella che un altro americano avrebbe definito Festa mobile e lo attesta la recente, documentatissima biografia a firma di Jérome Kagan, Eugene McCown démon des Années folles (Séguier, pp. 471, € 22.00): viceversa nel 1934, con la crisi economica che spopola gli ateliers, dopo dodici anni di permanenza, torna definitivamente a New York e qui comincia il suo lungo addio all’arte e alla vita medesima. Di Parigi gli rimangono le ipoteche viziose (l’alcol e le droghe da cui dipenderà fino all’ultimo), la saltuaria frequentazione degli spatriati di ritorno come lui e un mare fermentante di ricordi e di rimorsi a partire da quello per Crevel, che si è tolto la vita nel giugno del ’35 riservandogli una estrema dedica, con queste parole: «Svegliati, Coconotte, che è tempo di parlare dell’esistenza». Per parte sua, ha smesso di dipingere ma, grazie alle politiche del New Deal, sopravvive fino al ’41 con un incarico di insegnante di materie artistiche prima di arruolarsi volontario e fra il ’42 e il ’43 è a Londra quale traduttore dal francese nei servizi di Intelligence, ma presto viene congedato per problemi psicofisici.

Il suo vecchio amico Klaus Mann (un altro scampato alle esorbitanze giovanili di Parigi) lo incoraggia a scrivere e però ne esce un romanzo modestissimo, The siege of innocence (1950), in cui McCown tenta goffamente di addure il suo tracciato autobiografico, né ha maggiore successo la versione di un raro Simenon, L’enterrement de Monsieur Bouvet (’55), che i giornali ritengono scolastica. Fisicamente irriconoscibile, sfigurato, gonfio di wisky e di anfetamine, egli sopravvive in solitudine delirando al telefono con i pochi amici residui, chiuso nel piccolo appartamento di Manhattan dalle cui pareti ha fatto sparire le riproduzioni dei quadri giovanili. Kagan nella biografia riporta il passo di una lettera sconsolata alla sua leggendaria promotrice, Nancy Cunard, in cui afferma che «non si può perdonare all’America il suo allontanamento dal resto del mondo» e che «anche se un continente sarà pur sempre un continente, in un certo senso neanche l’Africa è mai riuscita ad essere lontana dalla Francia quanto Parigi da New York».

Sente, con ogni evidenza, di non essere riuscito ad adempiere l’oroscopo del suo indimenticabile amante, René Crevel, che così lo aveva individuato a suo tempo: «Senza preoccuparsi della piccola logica, indifferente alle rimostranze delle virtù quotidiane, continua il suo viaggio nel paese dell’innocenza, e si applica, con assoluta ingenuità, a dipingere ciò che vede nella propria anima, nella sua mano, nel sole». E il sole si spegne per sempre su di lui a New York il 23 aprile del 1966, in una anonima stanza di ospedale. La sua agonia è infinita, un mese prima ha ingoiato un tubetto di Gardenal ma Eugene McCown, colui che fu una promessa dell’arte, da tempo è solo l’ombra di un vivente.