Una delle risposte possibili all’emergenza sanitaria e ai lockdown stop-and-go degli ultimi mesi, a cominciare dal tempo sospeso della scorsa primavera, è stata quella per molti musicisti di chiudersi nei loro studi privati di registrazione. E lì giù a provare ad impastare suoni buoni alla bisogna come anche a cavare tracce da ombre di brani che non avevano trovato forma definitiva in precedenti lavori.

LA RISPOSTA dunque c’è stata ed è stata globale a contar le uscite discografiche che al lockdown si sono richiamate e nel conto è spuntato anche Paul McCartney. Il settantottenne ex-Beatle però fedele al piglio ironicamente colto e surrealistico che ne ha contraddistinto la lunghissima carriera, anche solista, ha definito questo periodo il suo personale «rockdown». D’altronde «Macca» ha sempre amato lo scioglilingua pop, proveniente dalla passione per i suoni delle bande di paese esaltato però dalle linee dure e melodiche del suo «rickenbaker». Ed ecco il «rockshow» che in McCartney III si presenta come il testamento del più formidabile one-man-band del ’900. L’unico capace di piegare la sua musica al tempo vissuto. Basta osservare che questo terzo tempo esce a distanza di 40 anni dal secondo e a cinquanta dal primo: peraltro bollati da eventi diversamente luttuosi come il disfacimento dei Beatles e l’assassinio di John Lennon. Peraltro in anticipo di qualche mese sugli accadimenti. Non che ci sia nulla di profetico, ma sia McCartney I che McCartney II sono stati veri (e solo a posteriori capiti dalla critica) turning point intellettuali del compositore di Yesterday e Mull of Kintyre. Di certo non si può ignorare che McCartney III giunge al crepuscolo di una carriera straordinaria e l’aver cantato tutte le parti e suonato «in cattività» tutti gli strumenti, come fece nei primi due capitoli eponimi, potrebbe sembrare in apparenza quasi un incidente di percorso che non può né accrescere né diminuire quest’avventura.

NON È COSÌ all’ascolto. L’album è sì la conclusione di una forse non prevista trilogia, ma è soprattutto un album circolare: sintesi della volitiva capacità del suo autore di far sua la storia del pop-rock, essendo lui medesimo parte di questa storia, i cui apici si scovano nel lungo prologo folk-rock di Long Tailed Winter Bird e nella chiusura di When the Winter Comes. Il titolo di quest’ultimo brano – proveniente dal serbatoio anni ’90 e dalla collaborazione con George Martin – vorrà pur dire qualcosa per lui?