Una più ampia platea lo potrà ascoltare, registrato, il 26 novembre prossimo alle 23.00 sulla lunghezza d’onda di Radiotre. Intanto il concerto di Rob Mazurek ce lo godiamo nella Sala A di Via Asiago in Roma, quartier generale di radio Rai. Il musicista americano, compositore, cornettista, leader di svariate formazioni, è in assoluta solitudine. Non si ricorda un’occasione simile in precedenza. Ma, soprattutto, non si ricorda un Mazurek così nuovo, così interessante, così libero, così importante.

 

 

È molto celebrato da parecchi anni a questa parte il quarantanovenne Mazurek. Con i gruppi che ha fondato e alternato in continuazione, il Chicago Underground duo, il Sao Paulo Underground Trio, il Pulsar Quartet, la Exploding Star Orchestra, ha operato sintesi di musiche jazzistiche ed extra-jazzistiche di tutti i tipi, compresi il free, il bop, l’etnico (mai popular e tantomeno populista), l’elettronica. Cercando sempre di dare un tocco di originalità, attraverso la preparazione di materiali propri, alla sua assimilazione e rielaborazione di esperienze già compiute. Questa volta va più in là.
Cornetta, pianoforte, parti su nastro magnetico. Ecco lo strumentario. Di Mazurek in concerto al piano non si ha memoria, anche se ci sono sempre i fans enciclopedici che possono averlo ascoltato alla tastiera del gran coda in qualche sperduto angolo di mondo. L’elettronica, invece, gli è familiare. E la cornetta è il «suo» strumento. Proprio al pianoforte riserva l’inizio della performance. Ampi, eloquenti accordi dissonanti. Distanziati uno dall’altro, autonomi. Diciamo pure che questo è un Mazurek «contemporaneo classico», non jazzistico. Ma è jazzistico o no il Mazurek che con suoni lunghi della cornetta cerca subito dopo le possibili rifrazioni di queste sue linee di suoni con i blocchi di suoni del pianoforte? Lo è, certo che lo è, dato che il jazz è da tempo una musica che viaggia oltre o sui margini dei confini musicali. Comunque, queste sono lucidissime linee di suoni non tonali, senza melodia conchiusa. E la sonorità è tersa, persino squillante (cosa strana per una cornetta, solitamente più opaca).

 

 

Mazurek come sempre tendente al razionalistico. È la sua costante estetica. E come sempre aperta, oscillante, dubitativa. Non passano che pochi secondi e lo ascoltiamo partire in una vivace improvvisazione che più jazzistica non si può, anzi è un’escursione nella classicità moderna del jazz, volendo si possono intrasentire Clifford Brown o Booker Little. Ma la vivacità si accompagna alla riflessione, e le frasi sono felicemente ricercate. Musica nuova, jazz nuovo. Stacco, cambio di scena. Mazurek ancora al pianoforte. Ora gli accordi sono disposti in sequenza, non c’è violenza sonora come all’inizio ma c’è ancora una sintonia col mondo della «contemporanea dotta». E il «domanda e risposta» tra pianoforte e cornetta, che riprende, è un’alternanza di frasi più discorsive. Più brevi quelle del piano più elaborate e propulsive quelle della cornetta. Al pianoforte Mazurek è come se stendesse una piattaforma per un dialogo con se stesso.
C’è un Mazurek più «vero» in questo dialogo? Probabilmente sì, ed è quello alla cornetta, più apparentato col jazz, forse più militante in questo campo. Non perché le parti di pianoforte siano insipide o generiche. Anzi. Permettono agli slanci riflessivi dell’improvvisatore jazzista col suo strumento a fiato di apparire sperimentale e tradizionale nello stesso tempo. In ogni caso non si è mai ascoltato un Mazurek in questa versione. Versione di lusso. Splendente come solista jazz. Dotato di profonda cultura musicale, che utilizza per non lasciare mai niente al non meditato o all’insignificante, anche quando prende «appunti» con le mani sulla tastiera.

 

 

Un nuovo cambio di scena riguarda le basi elettroniche registrate. Sono di sapore «ambient», accennano dolci viaggi nelle galassie. Ed è con questi ulteriori materiali della propria cassetta degli attrezzi sonora che Mazurek intrattiene un altro dialogo. E fa risaltare ancora una volta, con la cornetta a campana aperta oppure con sordina (e allora echi di Davis entrano in gioco), il suo lato di jazzista polimorfo, curioso, imprevedibile, appassionante.