Romanzo dal forte fascino teorico e affabulatorio, centrato sull’amore e sul tempo, sulla gelosia, sulla dimensione sempre anche immaginaria delle nostre esperienze e sulla potenza conoscitiva della narrazione, Il mio nome sia Gantenbein di Max Frisch apparve nel 1964 e fu subito un bestseller; in Italia uscì l’anno dopo per Feltrinelli, poi è stato più volte riedito e ora viene riproposto negli Oscar moderni di Mondadori (traduzione di Ippolito Pizzetti, pp. 300, € 14,00).

È un un mosaico di storie, strutturato secondo il principio della fuga e della variazione, pieno di racconti, di aperture riflessive inaspettate. L’io narrante è un uomo del quale non apprendiamo nulla tranne le storie che inventa, un uomo che – come leggiamo nelle prime pagine – «ha avuto un’esperienza, ora cerca la storia che le si attaglia».

Per Frisch non c’è altro modo per comprendere i fatti che viviamo se non così: inventando storie che li rendano leggibili, e rivelino qualcosa di noi stessi che non possiamo conoscere altrimenti. «Date a qualcuno la possibilità di fantasticare», disse una volta, «date a qualcuno la possibilità di raccontare ciò che si immagina, e le sue invenzioni dapprima appariranno arbitrarie, la loro molteplicità imprevedibile; ma quanto più a lungo lo ascoltiamo, tanto più riconoscibile diventa in quelle storie un modello di esperienza». Ovvero, un determinato modo di vivere sé stessi e il mondo, individuabile solo attraverso la finzione: questo processo – secondo Frisch – manifesta la struttura psichica che ci rende quel che siamo e non ci consente di essere diversi. Qualcosa che fonda il senso della nostra identità, e agisce come l’antico destino.

Nella commedia Biografia (1967), Frisch aveva regalato allo scienziato Kürmann la possibilità di rivivere la sua vita e di cambiarla, di evitare gli errori fatti e sperimentare altre possibilità; ma lo induce alla fin fine a fare le stesse scelte, a percorrere le strade consuete. Kürmann, infatti, può cambiare molte cose ma non la natura della sua intelligenza, della sua personalità, il suo modo di sentire e di reagire agli eventi, perché altrimenti non sarebbe più lui. «Sta già scritto», diceva Jacques le fataliste al suo padrone. E noi possiamo soltanto leggere il testo che determina la nostra esistenza.

Più che sulla forza opprimente di ciò che si mantiene costante, Il mio nome sia Gantenbein punta invece sulla potenza liberatrice della variante. L’io narrante si immagina nei panni di tre personaggi legati in modi diversi a un’unica donna, l’affascinante Lilla, un’attrice celebre, ammirata, corteggiata. Gli uomini sono l’ex marito, l’architetto boemo Frantisek Svoboda; l’amante, Felix Enderlin, un rinomato storico dell’arte; e l’attuale marito, Theo Gantenbein, che si finge cieco dopo un incidente automobilistico per non dover affrontare i tradimenti di lei.

Il romanzo è, fra l’altro, la rielaborazione letteraria della tormentata storia d’amore di Frisch con Ingeborg Bachmann. Quando scrive è a Roma, dove si trasferiscono nel 1960. «Vicino a lei c’è solo lei, vicino a lei comincia la follia». È un amore, in effetti, follemente intenso, nonostante lei si renda spesso così inavvicinabile da farlo disperare. Per lunghi periodi se ne va senza dirgli dove e con chi, e Frisch che non parla l’italiano e a Roma non conosce nessuno resta a scrivere questo romanzo, tormentato dalla gelosia, ferito dai tradimenti di lei. La abbandona nel 1962 per Marianne Oellers, di ventotto anni più giovane di lui, e per Bachmann è uno choc da cui non riuscirà a riprendersi. Frisch le manda il manoscritto, lei riesce a convincerlo a rinunciare ad alcuni passaggi; quando il romanzo esce, tuttavia, si sente «mortalmente ferita». Si vede ritratta, ridicolizzata nella figura di Lila, e sente questo come un attacco, una vendetta nei suoi confronti.

A ragione la critica femminista ha colto nel romanzo i segni di un desiderio maschile di possesso simbiotico del corpo femminile, di cui però Frisch tematizza il continuo fallimento. Il suo Gantenbein ha un’«unica certezza Su Lilla: così come me la immagino, non esiste».