Dal 2015 i siti archeologici del Medio Oriente sono balzati sui media internazionali per effetto delle violente e perlopiù irreversibili distruzioni compiute dallo Stato Islamico. Il caso più emblematico è rappresentato da Palmira, attrazione turistica per eccellenza della Siria fino allo scoppio del conflitto nel 2011. L’immediata identificazione dei monumenti della cosiddetta Sposa del deserto nelle radici greco-romane sta alla base dell’ondata emotiva provocata in Occidente in seguito all’abbattimento dei templi di Bel e Baalshamin, delle torri funerarie e di altri significativi edifici. Al contrario, città di straordinaria importanza quali Nimrud in Iraq sono state rase al suolo dall’Isis senza suscitare empatia alcuna.
Senso di familiarità
Nel suo recente Dalla terra alla storia (Einaudi «Saggi», pp. 567, euro 48,00), Paolo Matthiae sostiene che nell’immaginario comune sia proprio l’identità l’aspetto maggiormente fascinoso degli scavi archeologici e delle prospezioni sul terreno. D’altra parte, l’archeologo militante ha l’abitudine di formulare l’interpretazione delle sue scoperte in funzione del senso di familiarità che esse gli ispirano, processo che innesca inevitabili mistificazioni, in quanto il rifiuto dell’alterità preclude lo studio delle culture del passato nei loro caratteri distintivi. Il sempiterno confronto con i valori dell’impero romano nonché l’applicazione di definizioni anacronistiche come «democrazia sumerica» o «borghesia babilonese» distorce una realtà comprensibile solo se inserita nel contesto d’origine. L’obiettivo perseguito da Matthiae con questo corposo volume, scritto sul filo di una passione che non accenna a spegnersi, è dunque di raccontare scoperte leggendarie effettuate nel Vicino Oriente tra XIX e XX secolo, con un’attenzione particolare all’epoca contemporanea. È infatti negli ultimi cinquant’anni che, grazie al progresso delle tecniche di scavo e al coinvolgimento di archeologi locali, le civiltà preclassiche dell’Oriente hanno riconquistato un posto di rilievo nella storia universale. Il rigore scientifico con cui l’autore affronta le tematiche scelte – il testo è suddiviso in dodici sezioni e spazia dal regno dei faraoni alle tombe delle regine di Assiria, dalle sorprendenti pitture minoiche di Avaris, capitale degli Hyksos, alla favolosa eco del Tempio di Salomone a Gerusalemme –, assieme a una visione che abbraccia diverse discipline, assicura una lettura ricca di dettagli (ben curato anche l’apparato grafico) seppur impegnativa. Il libro ha anche il merito di tenere alta l’attenzione su luoghi che rischiano di scomparire per il perdurare della guerra civile in Siria.
Fra questi non poteva mancare Tell Mardikh, circa cinquantacinque chilometri a sud di Aleppo, alla cui conoscenza Matthiae ha consacrato la sua carriera restituendo alla comunità scientifica e civile una città di cui per secoli si erano perse le tracce: Ebla. L’istituzione di una missione archeologica italiana a Tell Mardikh per conto dell’Università La Sapienza di Roma nell’ormai lontano 1964 si deve alle potenzialità dell’insediamento, suscettibile di aprire nuovi orizzonti su una cultura urbana periferica alla Mesopotamia e indipendente rispetto al mondo paleobabilonese. Decisiva, a questo proposito, era stata l’esplorazione di Alalakh (attuale Tell Atshana) condotta tra il 1936 e il 1949 da Leonard Woolley successivamente all’epica impresa dello scavo di Ur. L’archeologo inglese – insignito, come Arthur Evans, del titolo di baronetto – riportò infatti alla luce nella piana di Antiochia un centro urbano sorto durante il II millennio a.C. tra l’Eufrate e il Mediterraneo, all’ombra dell’antica Aleppo.
L’estensione di Tell Mardikh (quasi sessanta ettari) faceva presagire, invece, un’influenza politica di importanza non secondaria mentre la sua morfologia – un’area ellissoidale tripartita in acropoli, città bassa e cinta muraria – tradiva la presenza di un tessuto urbano connesso a una forte complessità sociale. I primi scavi permisero di stabilire una successione cronologica degli stanziamenti, collocando il periodo di massima fioritura nella prima metà del II millennio a.C., e di mettere in evidenza strutture architettoniche quali il Tempio di Ishtar, pregevole antecedente del celebre Tempio di Gerusalemme attribuito a Salomone. La prima scoperta eclatante avvenne nel 1968, quando il rinvenimento di un torso acefalo di una statua reale in basalto con un’iscrizione votiva in akkadico sciolse l’enigma sul nome antico del sito: l’ignoto Ibbit-Lim, che dedicava la scultura alla dea Ishtar, si proclamava re di Ebla.
Ma è dalle indagini sistematiche nel cosiddetto Palazzo Reale G, prottratesi per ben quarantasei anni fino al 2010, che sono arrivati risultati rivoluzionari per lo studio delle lingue e delle società mesopotamiche: tra il ’74 e il ’76 emersero infatti circa quattromila tavolette cuneiformi appartenenti agli Archivi Reali. Gli oggetti si trovavano in situ, disposti nei vani per la conservazione e sigillati dallo strato di distruzione della città risalente al regno di Sargon di Akkad. Dall’arresto forzato delle ricerche a Tell Mardikh non si hanno notizie certe sullo stato di conservazione dell’antico abitato, seppur lo stesso Matthiae non abbia nascosto in occasione di dibattiti pubblici l’elevato rischio di degrado delle fragili costruzioni in mattoni crudi.
Il conflitto siriano
Fra i progetti interrotti a causa del conflitto siriano vi sono anche il completamento degli scavi nel Tempio del dio della tempesta ad Aleppo e la sua difficile musealizzazione, finalizzata a proteggere le rovine e a organizzarne al meglio la fruizione. La straordinarietà di questo monumento, oggetto di uno dei capitoli più seducenti del libro, deriva non già dall’imponenza dei suoi resti quanto dall’essere incastonato nella Cittadella, scrigno di cinque millenni di storia cantati da poeti e viaggiatori. Sovrastato da testimonianze architettoniche ellenistiche, romane, medievali e moderne dai tempi degli emiri hamdanidi e ayubbidi all’età mamelucca e al periodo ottomano, il tempio preclassico della divinità della tempesta riemerse durante gli scavi della Missione archeologica siro-tedesca nel 1996. Nel ripulire il vecchio sondaggio intrapreso da Georges Ploix de Rotrou, dal ’29 al ’41 conservatore del Museo archeologico di Aleppo, Kay Kohlmeyer e Wahid Khayyata si resero conto che il nobile francese aveva raggiunto la faccia posteriore di una lastra in posto – la prima di una lunga serie di lastre databili al 900 a.C. – senza accorgersi che sulla faccia anteriore recava un rilievo con due tori affrontati ai lati di una pianta sacra. Fino al 2010, in quindici anni di scavi, nei quali si raggiunse una profondità tra i sei e gli otto metri dal livello attuale della Cittadella, venne così riportata alla luce gran parte della cella dell’edificio di culto con una sontuosa decorazione scultorea di epoche differenti, fondamentale soprattutto per la conoscenza della cultura figurativa neosiriana.
Negli anni settanta del Novecento un altro santuario, fondato secondo il mito dal dio solare Shamash a Sippar nella regione settentrionale della Babilonia, ha riservato la scoperta di una biblioteca costruita su tre livelli sovrapposti e formata da una cinquantina di scomparti della profondità di 70 cm realizzati con vimini impastato di fango. Il tempio di Ebabbar, la «Casa risplendente», del VII-VI secolo a.C. con il suo lascito di saperi – le tavolette rinvenute spaziano da testi letterari a composizioni poetiche fino a opere di carattere religioso o mantico – insegna che l’archeologia, anche quella più distante dal «gusto» occidentale, riconduce sempre ai bisogni e alle aspirazioni più sublimi dell’uomo. Il libro di Matthiae è un invito ad addentrarsi nell’intricato ma luminoso cammino delle civiltà orientali, affinché rinascano a ogni ricordo.