Non accade spesso che un libro induca a riflettere sullo statuto della critica letteraria senza ricorrere alla soluzione più facile: denunciarne ancora una volta il presunto esaurimento, con aristocratica malinconia. Il volume di Matteo Marchesini Da Pascoli a Busi Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, pp. 535, euro 28,00) sfonda quest’impasse, anche se lo fa suscitando un disaccordo radicale non tanto sui singoli giudizi, quanto sull’idea stessa di lavoro critico.

Che tipo di critico è o vorrebbe essere Marchesini? Da Pascoli a Busi, in cui sono raccolti più di cinquanta interventi scritti «lungo l’ultimo decennio» per convegni, riviste e soprattutto per quotidiani, fornisce adeguate risposte a quest’interrogativo: «Ci sono critici e saggisti – si legge per esempio all’inizio del brano Cajumi sotto attacco – che si leggono con piacere non perché si condividano i loro giudizi, ma perché hanno un temperamento inconfondibile, un (cattivo) carattere che non tradisce, una reattività schietta che ne rivela, insieme coi limiti e le angustie, anche la caparbia autonomia intellettuale». Il carattere, o piuttosto l’umore, e la rivendicazione di autonomia sembrano in effetti i due tratti con cui Marchesini disegna il profilo del critico eslege cui vuol somigliare. I modelli o almeno i riferimenti sono, tra gli altri, Baldacci, Cases, Berardinelli; ma spesso viene in mente soprattutto il Boine di Plausi e botte (del resto esplicitamente citato nel brano Le pietre dure di Giorgio Manacorda), per il vezzo di portare dentro il rapporto con i testi e gli autori le circostanze contingenti del proprio operare. Lavorando ai suoi pezzi, «in pochi giorni o in poche ore», Marchesini ammette di aver «sviluppato un sistema nervoso piuttosto bizzarro», ma anche di aver messo alla prova «doti quasi atletiche» (così nella pugnace Premessa al volume). Bene, ma l’eventuale sympátheia per questo umano senso di sé non cancella l’obiezione di fondo: la contingenza non è l’esperienza. La prima, tutta privata, aggiunge alla critica solo quel tanto di idiosincrasia che la rende piccante, ma non basta a infondere nelle opere quella vita presente che può essere trasmessa ai lettori. Non credo che la militanza critica consista nel dar conto di come l’oggetto arriva a noi, se ciò comporta arbitrio e autoreferenzialità; consiste piuttosto nel far arrivare quell’oggetto agli altri, puntando a capirne e farne capire l’essenza, rinunciando all’apparato tecnico adatto a un contesto specialistico.

Perché la domanda è appunto: per quali destinatari scriviamo articoli e recensioni, specialmente sui quotidiani? A volte l’impressione è che i saggi raccolti in Da Pascoli a Busi siano scritti soprattutto per o meglio contro altri critici. Di conseguenza, anche le scelte di gusto, più che dai valori intrinseci alle opere, sembrano dipendere dalla volontà di distanziarsi polemicamente dagli interpreti che hanno apprezzato quelle opere.

L’esperienza è una cosa diversa e va al di là dell’autorappresentazione vittimistica del critico «senza appoggi accademici né lasciapassare specialistici» (ancora dalla Premessa); consiste nel comprendere i significati e le ragioni delle opere, prima di consegnare gli uni e le altre al giudizio. Così, ad esempio, un critico che veda in Montale solo «il volto di un qualunquista scettico in pantofole», e in Gadda un goliardico virtuoso dannunziano, semplicemente non fa il critico ma l’opinionista.

Davvero non ci accorgiamo di quanto Montale (non l’ultimo, che Marchesini sembra avere in mente, ma quello almeno dei primi tre libri) abbia contato – non solo per i critici e gli altri poeti, ma per noi, donne e uomini – nel rendere percepibili e dicibili lo spazio fisico che abitiamo e le cose intorno a cui tentiamo di costruire un senso e una memoria?

Davvero il Giornale di guerra e di prigionia può essere letto solo come un manifesto del dannunzianesimo gaddiano e non come una delle più drammatiche rappresentazioni di un trauma individuale e storico?

E cos’è la sterilità che condanna i personaggi della Cognizione e del Pasticciaccio al confronto doloroso con la vita che si perpetua di generazione in generazione: barocchismo stilistico o esperienza profonda?

Certo, c’è chi ha letto e forse continua a leggere Gadda così, solo per lo stile; ma allora il compito del critico, giustamente in disaccordo, non è quello di prendersela con l’autore confermando il giudizio più stantio, ma discutere i limiti di un’interpretazione (magari anche tenendo conto di qualche decennio di critica che ha smesso di guardare solo allo stile delle opere di Gadda, per analizzarne invece le componenti conoscitive e gli aspetti costruttivi della narrazione).

Spesso stonata nella pars destruens, la raccolta saggistica di Marchesini mostra migliori qualità nella pars construens; quando cioè, liberandosi un po’ dall’ipoteca antagonistica, Da Pascoli a Busi riesce a svolgersi come una storia alternativa, necessariamente episodica ma abbastanza capillare, della letteratura anzi dei letterati (come da sottotitolo) italiani nell’età contemporanea. Alle sintesi più meditate su poeti canonici (da Caproni a Fortini, ad Amelia Rosselli, su cui Marchesini esprime un condivisibile giudizio chiaroscurale), si alternano scritti anche su autori in stato di perenne rivalutazione: Bianciardi Roversi Volponi Morselli. I ritratti di intellettuali oggi meno noti di quanto meriterebbero (come Nicola Chiaromonte, cui Marchesini dedica uno dei saggi più lunghi e originali del libro) si incrociano con le pagine su altri critici o critici-scrittori, come Cordelli e soprattutto Garboli. «Con “suprema” e “brutale” accortezza – scrive Marchesini in conclusione del saggio Malato e felice. Cesare Garboli tra la vita e il libro – questo interprete ha allontanato da sé i fantasmi demiurgici dell’Otto-Novecento, distinguendosi subito da quel Citati nelle cui pagine “tutti i salmi finiscono in Gloria”, e tutti gli autori evaporano in un gas neoplatonico dal quale si leva solitaria l’impudente ricreazione del critico. E tuttavia, neanche Garboli ha potuto evitare di contrabbandare un talento di romanziere sotto mentite spoglie».

Ma il campo, peraltro abbastanza ristretto a giudicare dai pochi scritti dedicatigli in questo libro, in cui Marchesini si rivela meno idiosincratico è quello della letteratura più recente. Può sembrare curioso, ma si spiega con il fatto che i libri appena usciti e gli autori che ancora non si trovano in tutte le storie letterarie non scatenano le ansie anticanoniche del critico. Così, ad esempio, oltre che sul nome sicuro di Walter Siti, Marchesini si ferma su Aldo Busi, scrivendo pagine efficaci sul suo ultimo romanzo ‘sterniano’, El especialista de Barcelona, troppo frettolosamente liquidato o rimosso da molta critica: «L’autore dell’Especialista ci propone (…) una scrittura che nella sua puntigliosa quanto immaginosa precisione (…) finge anche quel margine d’improvvisato, di approssimato e imperfetto che la fa muovere e che descrive la parabola di un pensiero inscindibile dal suo movimento, dal suo “corpo”».

Felici, infine, le aperture di credito che Marchesini concede agli autori della sua (della nostra) generazione: da Paolo Maccari, poeta che, soprattutto con Fuoco amico (2009), si è mostrato capace «di non dimenticare il secondo Novecento e al tempo stesso di non farsene inghiottire»; a Paolo Zanotti (1971-2012), autore di romanzi alla lettera straordinari come Bambini bonsai e Il testamento Disney, che non somigliano a nient’altro di ciò che si scrive oggi in Italia.