La «manducazione» privilegiata nelle concezioni cristiane dell’eucarestia precedenti la stagione moderna, e dunque il «rito simbolico e sociale (ecclesiale) che – ha osservato Michel de Certeau – assicurava a chi vi prendeva parte l’alleanza con Dio», è qualcosa di diverso da quanto descrive Matteo Al Kalak nel suo saggio Mangiare Dio Una storia dell’eucarestia (Einaudi, pp. pp. XX – 252, euro 28,00) dove si parla piuttosto di un gustare affatto sensuale il pane e il vino in cui corporaliter è presente il Cristo. Di san Filippo Neri, infatti, l’autore ricorda come – a detta del suo biografo – «lambiva e succhiava con tal affetto il calice che parea non si sapesse staccar da quello».

Intorno alla metà del Settecento – riporta ancora Al Kalak – un gesuita scriveva che l’eucaristia «si può dire altare di poppe», da cui scorre un latte di cui bisogna avere «buona fame», perché il Cristo «ha fame di essere mangiato». E, ancora: «Quello di Gesù è un corpo che doveva essere sentito e gustato nella sua dimensione tattile… mangiato con gusto, come un cibo consistente».

Certeau annota Surin
Negli stessi anni, un gesuita e mistico francese, Jean-Joseph Surin, scriveva del pane e del vino eucaristici: «Benché ciò sia del tutto contrario a [quanto sostengono] gli scolastici la mia lingua sente Dio e gusta Dio come gusta il moscato e l’albicocca e il melone». In queste righe, annotava Certeau commentandole, si ha un’esperienza del tutto nuova dell’eucarestia. Preso atto della frantumazione della cristianità e della perdita di autorevolezza delle chiese, il cristiano, infatti, cerca al di là della tradizione «una conoscenza soggettiva che duplichi il rito (e possa sostituirvisi)», un’esperienza «di bocca e mucose» che, a chi la prova, «dà certezza e ha forma erotica».

Del resto, è la chiesa stessa a promuovere (involontariamente) questa crescente consegna del sacramento ai meri sensi del credente, reso sempre più solo spettatore del culto: il libro di Al Kalak evidenzia la progressiva, programmata teatralizzazione delle liturgie tra fine Cinquecento e Seicento, attraverso costruzioni, giochi di luce, musiche, canti, incensi, azioni drammatiche che devono sbalordire, stordire e catturare il fedele, coinvolgendone tutti i sensi (e solo essi!).

Dopo un veloce inquadramento delle origini del culto eucaristico e del suo sviluppo in ambito «latino» fino al Quattrocento e un capitolo dedicato al suo radicale ripensamento negli ambienti della Riforma, la ricerca di Al Kalak insiste sul modo in cui esso viene riproposto dai vertici della chiesa cattolica nell’Italia del tardo XVI-XVII secolo, con un ampio capitolo finale che ne documenta la riproposizione dal Settecento dei Lumi fino ai giorni nostri.

La premessa necessaria è sintetizzata nel titolo di un saggio dello stesso Al Kalak sullo stato della diocesi di Modena nel 1564-65: «La chiesa sta malissimo» – e non tanto per la corruzione dell’alto clero, l’ignoranza e immoralità del clero secolare e religioso e di molti fedeli, l’affermarsi di poteri e saperi che rivendicavano un proprio indipendente sviluppo, ma per il fallimento, resosi infine evidente, di secoli e secoli di predicazione cristiana. Da un’esigenza di ripensamento radicale dell’istituzione ecclesiastica muovono dunque i riformatori, ma anche tanti cristiani di allora che con scelta diversa fornirono alla chiesa di Roma nuovi strumenti di sostegno alla sua azione riformatrice, pur fortemente centralizzata.

Sono due i soggetti che, sotto l’occhiuta vigilanza romana, si fecero allora promotori di questa nuova stagione cattolica: alcuni vescovi maggiori (Carlo Borromeo a Milano, Gabriele Paleotti a Bologna, ad esempio) e alcuni ordini religiosi di nuova costituzione: i barnabiti, i teatini e, soprattutto, i gesuiti. Entrambi, vescovi e ordini, colsero allora, sottolinea Al Kalak, nell’incremento della devozione eucaristica uno dei punti nodali della riforma del mondo cattolico.

Alla cura nella formazione del clero e al decoro delle chiese si affiancava così l’organizzazione capillare sul territorio di un culto eucarsitico che scandisse i tempi del vivere quotidiano attraverso l’istituzione di confraternite che ne garantissero lo svolgimento, con una presenza laicale subordinata al clero, ma ampiamente coinvolta. Ancora, il culto non si celebrava solo nelle chiese, ma occupava l’intera città, e non solo con le grandi processioni, come quella del Corpus Domini, ma anche con processioni minori, come, ad esempio, quella organizzata, sempre avvalendosi di confraternite, per portare il viatico ai morenti.

Pratiche magiche
Questa imponente macchina ecclesiastica non riuscì tuttavia ad aver ragione di un’opposizione varia e inestirpabile, che l’autore descrive in un capitolo dedicato alla «eucarestia dissacrata»: frange popolari dedite a pratiche magiche o superstiziose; dissidenti, pur impediti di dar voce ai loro pensieri, e, da ultimo, quei soggetti impegnati nella costruzione di assetti politici, sociali e intellettuali su cui nessuna inquisizione poteva prevalere – e qui l’intransigente conservatorismo delle élite ecclesiastiche fu particolarmente devastante per la chiesa stessa, come illustra la storia successiva al crollo dell’Ancien régime, che l’ultimo capitolo, sommariamente, richiama.

Quel mangiare Dio che riassume provocatoriamente fin dalle prime generazioni cristiane un punto nodale del vangelo viene così nel Settecento con mordace ironia portato a un suo paradossale esito da David Hume nella Storia naturale della religione con la citazione di una di quelle «storielle, magari un po’ irriverenti, che i cattolici stessi amano riferire». L’episodio è relativo alla conversione a Parigi di un musulmano, cui, una volta ben catechizzato, fu data l’eucarestia. Il giorno dopo la comunione, si legge, il prete gli chiese, per provarlo: «”Quanti dèi ci sono?”. “Nessuno”, rispose Benedetto, perché tale era il suo nome. “Come, nessuno!”, gridò il prete. “Sicuro – disse il buon proselite – mi avete sempre insegnato che c’è un solo Dio: e ieri me lo sono mangiato”».