«Fedeli soltanto alla Costituzione. È questa l’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato a tutela della democrazia su cui si fonda la nostra Repubblica». Nella cerimonia commemorativa del quarantesimo anniversario della loro uccisione per mano della mafia, del terrorismo o del brigatismo, il presidente della Repubblica ricorda Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa e infine Rosario Livatino, uno dei «giudici ragazzini» (la definizione coniata a pochi mesi dalla sua morte non era amichevole ed era di Francesco Cossiga, che anni dopo smentì di averla coniata per lui) nel trentennale dall’omicidio per mano di Cosa Nostra.

L’OCCASIONE SOLENNE della descrizione delle vite di magistrati esemplari, quest’anno dal Quirinale, davanti alle loro famiglie e ai loro colleghi, il gran parte in videocollegamento, è – e non potrebbe essere diversamente – quella anche per parlare dell’attialità e del crollo di credibilità delle toghe, «in amaro contrasto con l’alto livello morale delle figure che oggi ricordiamo». Nel discorso il capo dello stato si riferisce apertamente al «caso Palamara», all’inchiesta in corso a Perugia e alle intercettazioni che «rivelano», ma solo a chi fin qui non voleva vederle, le relazioni pericolose di alcuni magistrati con alcuni politici.

È DURISSIMO, non per la prima volta quando chiede alla magistratura un impegno «necessario» non solo a «superare ogni degenerazione del sistema delle correnti» e a recuperare «la credibilità e la fiducia dei cittadini, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca», dice, «la documentazione raccolta dalla Procura di Perugia – la cui rilevanza va valutata nelle sedi proprie previste dalla legge – sembra presentare l’immagine di una magistratura china su stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi». Il baratro di reputazione è profondo, quel che apparso anche dopo la prima esplosione dello scandalo – nuove intercettazioni finite sui media a un anno dall’apertura dell’inchiesta – «fornisce la percezione della vastità del fenomeno allora denunziato; e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della magistratura». Ma il presidente invita i cittadini a non generalizzare, le «distorsioni» non appartengono «alla magistratura nel suo insieme» e va preso atto che è stata la stessa magistratura «a portare allo scoperto le vicende». La gran maggioranza delle toghe, Mattarella ne è certo, «è estranea alla “modestia etica”», dice citando la severa formula usata di recente dal giurista Vladimiro Zagrebelsky sulla Stampa. Ma d’altro canto non si può ignorare il rischio che alcuni attacchi «siano, in realtà, strumentalmente diretti a porne in discussione l’irrinunciabile indipendenza».

IL PRESIDENTE SI RIVOLGE anche al governo, che ha in agenda la riforma del Csm, sul quale sarebbe ormai stato raggiunto un accordo almeno nella maggioranza. Ma che si preannuncia terreno di battaglia con le opposizioni. Mattarella non entra nel merito, e non potrebbe, ma ricorda che «la dialettica fra posizioni diverse» è «una ricchezza» ma avverte che «diventa deleteria» quando «le differenze si traducono in contrapposizioni sganciate dai valori costituzionali di riferimento».

INFINE, E ANCHE QUI non è la prima volta, chiede di non essere trascinato in un ruolo che la Carta non gli affida. «Si odono talvolta esortazioni, rivolte al Presidente della Repubblica, perché assuma questa o quell’altra iniziativa, senza riflettere sui limiti dei poteri assegnati dalla Costituzione ai diversi organi costituzionali; e senza tener conto di essi». Un ‘tirare di giacca’ rivolto alla sua persona e al suo ruolo che incoraggia una lettura delle funzioni del Colle «difforme da quanto previsto e indicato, con chiarezza, dalla Costituzione».

SUL SOLCO DI LUIGI EINAUDI, il presidente eletto dal primo parlamento repubblicano, assicura dunque che resterà fedele al «dovere di non pretendere di ampliare quella sfera al di fuori di quanto previsto dalla Costituzione e dalla legge». E qui il principio si allarga: nessuna «alterazione» della Carta, dunque, «qualunque arbitrio compiuto in nome di presunte buone ragioni aprirebbe la strada ad altri arbitri, per cattive ragioni».