Se pure l’espressione «visita di commiato» non compare nei comunicati ufficiali, né della Santa sede né del Quirinale, non possono esserci dubbi sul senso della visita del presidente della Repubblica italiana a papa Francesco. Del resto poche ore dopo quella parola l’ha pronunciata lo stesso Sergio Mattarella, tornato al Quirinale per la cerimonia dello scambio degli auguri con il corpo diplomatico. «È con grande piacere che torno ad accogliervi per il saluto di fine anno – ha detto – oggi per me è anche l’occasione di un commiato».

Forse il Vaticano ha voluto usare una po’ di prudenza nella sua nota ufficiale ricordando quello che accadde nel febbraio 2013, quando Giorgio Napolitano fece visita a Joseph Ratzinger tre mesi prima della scadenza del suo mandato. In quell’occasione fu anche offerto un concerto al capo dello stato italiano come omaggio alla chiusura del suo settennato. Pochi giorni dopo, però, fu Ratzinger a dare le dimissioni e così come non si era mai visto un papa dimissionario, dopo poco si dovette assistere anche al primo presidente della Repubblica rieletto. Ad accomiatarsi, in definitiva, quella volta fu Ratzinger.

Sergio Mattarella ha chiarito da tempo le sue intenzioni. Ed è tornato più volte a rendere esplicito, con crescente evidenza, il suo rifiuto di un reincarico, dovendolo fare proprio perché non sono cessate le pressioni e gli inviti a che ci ripensasse. Ieri quello con papa Francesco è stato un saluto vero e definitivo, sottolineato dalla natura solenne eppure privata del «viaggio» in Vaticano. Non si è trattato di una visita di Stato, il ministro degli esteri infatti non ha accompagnato il presidente. Secondo il cerimoniale Vaticano si è trattato di una «udienza». Mattarella ha però portato con sé e presentato a Bergoglio oltre quaranta persone della sua delegazione, riconoscimento e omaggio a una «squadra» che sta per concludere il suo lavoro. Anche la compagnia dei nipoti, per quanto non inedita, ha contribuito a dare alla visita quel calore tipico del «commiato».

Se dunque le chiacchiere politiche sul bis di Mattarella ancora non spariscono completamente non è per carenza di segnali in senso opposto, ma è per la grande difficoltà in cui si trovano i partiti nell’immaginare la successione. L’ipotesi più forte, quella del trasloco di Draghi al Quirinale, è sospesa in attesa che si delinei un percorso in grado di dare ai parlamentari rassicurazioni sul prosieguo della legislatura. Il segnale più forte in questo senso potrebbe arrivare dallo stesso Draghi che ha anticipato a prima di Natale la tradizionale conferenza stampa di fine anno.

Ma la situazione è a tal punto confusa che Salvini può ripetere il suo invito a «tutti i miei colleghi segretari di partito» a «incontrarci a un tavolo prima della fine dell’anno» per decidere il nuovo capo dello Stato. Eventualità, quella di un affollato incontro ufficiale con a tema il Quirinale, che si può tranquillamente considerare più impossibile che improbabile. Ma che serve a Salvini per intestarsi un qualche ruolo centrale nella trattativa. Il capo leghista soffre il protagonismo dell’alleata rivale Giorgia Meloni e infatti deprime la trovata del «presidente patriota» replicando a Meloni che «in Italia ci sono 60 milioni di patrioti». E si ricorda di riservare un pensierino alle speranze di Berlusconi, quando dice a Letta che «non può escludere nessuno» e sostiene (ma i numeri non dicono proprio questo) che «il centrodestra parte con la maggioranza dei voti in aula così com’è maggioranza in Italia». Ma la candidatura di Berlusconi, le sue speranze e le sue trattative private per arrivare alla soglia richiesta dalla quarta votazione, sono ormai un problema per Salvini e Meloni quanto lo sono per tutti gli altri.