Il sindaco Giuseppe Sala rivolge un duro attacco – del tutto condivisibile – al disegno di autonomia differenziata per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (Repubblica, 1 febbraio). Ma il countdown corre, e il partner leghista dell’esecutivo gialloverde vorrà presentare all’incasso, prima del voto europeo, la cambiale posta nel contratto di governo. Abbiamo già scritto sui vizi giuridici e politici del procedimento in atto, e sulle gravi conseguenze che ne derivano.

Ma è impossibile ormai ignorare le forti critiche che da più parti hanno evidenziato, con analisi e cifre, danni ingiusti, certi e potenzialmente irreversibili ad altre regioni. Non hanno mai ricevuto alcuna significativa risposta o prova contraria. Un silenzio reso ancor più intollerabile dalla segretezza sulla trattativa privata tra le regioni richiedenti e la ministra leghista Stefani.

Il bene in gioco è l’unità della Repubblica, da leggere non come mera contiguità e continuità territoriale, ma anzitutto come parità nei diritti di cittadinanza. Che unità è mai quella in cui le diseguaglianze su diritti fondamentali sono tecnicamente incolmabili, ed anzi per le regole che si vogliono introdurre possono solo accrescersi?

Se il punto focale è l’unità della Repubblica, si avvicina un primo passaggio significativo. Il disegno di legge governativo in cui si tradurrà l’accordo con le regioni dovrà essere autorizzato, per la presentazione alle Camere, dal Presidente della Repubblica. Che, per espresso dettato dell’art. 87 Cost., “rappresenta l’unità nazionale”. La domanda è: può il Presidente autorizzare la presentazione di un disegno che per tabulas lede quella unità?

L’autorizzazione per i disegni di legge governativi è da molti considerata un residuo del precedente regime albertino, oggi al più strumento utile al Presidente a fini conoscitivi. Maggior peso si attribuisce al rinvio alle Camere ex art. 74. Ma oggi ci muoviamo su un terreno costituzionalmente ignoto, e forse antiche convinzioni vanno ripensate.

A quanto si sa, per il ddl sulla autonomia differenziata si vuole adottare la prassi seguita per i disegni di legge sulle intese con le confessioni acattoliche, che sono inemendabili nel passaggio parlamentare. È una equiparazione in sé sbagliata, e su questo torneremo. Ma se fosse applicata questa prassi, il testo autorizzato e presentato andrebbe all’approvazione parlamentare così com’è, senza possibilità di correzione.

Ne verrebbe dunque azzerata l’interazione informale tra il Quirinale e Palazzo Chigi che in tante occasioni ha portato a limature utili dei testi nel corso del lavoro parlamentare. Ne verrebbe parimenti depotenziato il rinvio in sede di promulgazione ex art. 74, dal momento che per la inemendabilità potrebbe solo seguire una riapprovazione dell’identico testo. Quindi, la possibilità che il Capo dello Stato – come garante della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale – influisca sul disegno di legge da approvare si anticipa e si racchiude nel momento della autorizzazione.

Rileva in specie che – a quanto si sa – gli accordi accolti nel ddl governativo contengono almeno una previsione di manifesta incostituzionalità: quella dell’aggancio dei fabbisogni standard in termini di servizi per i cittadini al gettito fiscale nel territorio. Formula apparentemente esoterica, che si traduce in un diritto a servizi migliori, per quantità e qualità, nei territori più ricchi, e viceversa. Già di fatto accade, come sappiamo, in materie fondamentali come istruzione e sanità. Ma oggi si può in principio porre rimedio con l’azione politica. Domani, diventerebbe regola cogente, insuperabile, potenzialmente irreversibile. È qui il danno all’unità, con violazione di principi essenziali della Carta. Una prospettiva che si coglie anche nelle pronunce della Corte costituzionale (cfr. 118/2015). Dunque, può mai essere mera routine l’autorizzazione di questo ddl?

Lasciamo il che fare alla saggezza del Presidente. Non è certo la prima volta che un Capo dello Stato è chiamato a difendere l’unità del paese. Ricordiamo ripetute esternazioni e richiami alla coesione di Napolitano. Ancor prima, scontri frontali tra Scalfaro e la Lega dichiaratamente secessionista. Oggi le cose sembrano diverse. Ma è così davvero se la secessione è strisciante e occulta, una “secessione dei ricchi”?